Pinocchio di Guillermo del Toro è un film bellissimo

Il Pinocchio di Guillermo Del Toro è una delle più belle sorprese di quest’anno targato Netflix: ve ne parliamo in questa recensione, ovviamente no spoiler 

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Le Lacrime di un Bambino Vero.

Che poi sarei io: non vi dirò una bugia, PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO ha saputo commuovermi come non pensavo.
Mi aspettavo sicuramente un’ottima prova d’autore, graziata da un cast di doppiatori eccellenti, un’eccellenza tecnica grazie alla stop motion curata da un esperto veterano come Mark Gustafson e la partecipazione produttiva della The Jim Henson Company.
Qualcosa di bello, insomma. Ma non così bello, davvero.
Perché Guillermo Del Toro ha cullato questo progetto per oltre dieci anni, una gestazione lunga per un’idea nata in sordina sin da quando, da ragazzo, vide il Classico Disney, e poi, da cineasta già acclamato, quando si trovò davanti il lavoro unico di Gris Grimly per una edizione del libro di Collodi coi disegni dell’artista, il cui design del burattino, così sgraziato eppure così pieno di cuore e vita, fu la scintilla definitiva di un incendio creativo, di quelli che ti mettono il fuoco ai piedi.
Inizialmente, doveva essere proprio Grimsly a co-dirigere il film con Gustafson, su una sceneggiatura di Del Toro, salvo poi abbandonare il progetto e vedere il regista messicano salire definitivamente al timone della nave, pronto ad affrontare  quest’impresa, dalle mille traversie, soprattutto per via dei costi derivanti dalla stop-motion.

Sino a quando, quattro anni fa, arrivò Netflix, che come una Fata Turchina dal portafoglio sonante, fece la magia, diede nuovamente vita a questo “Pinocchio” e ora il risultato è davanti ai nostri stupefatti, lucidi, occhi.

Con la bocca che potrebbe proferir quelle parole, quelle solite, quelle che fanno stridere i denti: “Ancora Pinocchio? Ebbasta! Quante volte puoi raccontare la stessa storia?“.
E Guillermo Del Toro, sornione come solo lui sa essere, è qui a dimostrare che ci sono invece ancora svariati modi di raccontarla quella storia, nata nel lontano 1881 eppure, ancora oggi, fonte di un’ispirazione felicissima, ennesima trasposizione eppure talmente efficace da salire subito su di un ideale podio delle migliori mai viste sinora.
Perché c’è tanto nascosto in quelle pagine ingiallite di vecchio libro per ragazzi, ci sono significati che attendono solo di essere ripuliti dal troppo zucchero che ci è stato versato sopra in questi lustri, per riportare alla superficie l’anima grezza, quella di racconto con una morale importante, piena di significati che aspettavano solo un esperto artigiano, che lavorasse di penna e scalpello per tirarli fuori e renderli meravigliosa Arte visiva.
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È una fiaba, naturale, e come tale può essere raccontata in modi universali e personali assieme, infondendo a questo burattino che sin troppi volti ha conosciuto nel tempo, un’anima diversa, che sa di influenza artistica propria, di bagaglio culturale e parallelismi dal sapore ricercato, quasi a sottintendere che dietro la nascita di una magia ci sia ben altro.
Allora Del Toro fa quello che sa fare meglio, quando si tratta di scrivere, riportandoci a determinate atmosfere, anche antitetiche a quella che sarebbe una visione per bambini.
Prendiamo la Storia, quella con la S maiuscola, che fa da sfondo al nostro racconto: siamo nell’Italia della Grande Guerra, in un piccolo villaggio dal tenore antico, in cui tutti gli abitanti si salutano per nome e si rispettano, all’ombra di una grande chiesa, in cui il lavoro artigiano dona splendore ad un enorme crocefisso.
Tutto è tranquillo, placido e sereno, e il buon Geppetto, un falegname vedovo, cresce il suo unico figlio, Carlo, tra sorrisi, fiabe della buonanotte e saggezza popolare.
Sinché l’ombra oscura del lontano conflitto non giunge a portare la morte: un bombardamento aereo uccide Carlo, e con lui se ne va anche la voglia di vivere di Geppetto.
L’uomo si lascia andare, mentre il tempo passa e quel pino vicino alla tomba del figlio, passa dall’essere un germoglio sino ad un albero alto e frondoso.
Una notte, ebbro di vino e dolore in egual misura, una notte magica, sotto gli occhi vispi di un grillo sin troppo loquace, Geppetto decide di buttare giù quel pino e creare un burattino, una sorta di folle caricatura che nelle sue sembianze sgraziate e mal rifinite gli ricordasse il suo bambino perduto.
Una sequenza, che se il titolo non fosse “Pinocchio” ma “Frankenstein” non farebbe quasi alcuna differenza, perché il sentire, citazionistico in primis e poi di sfida al beffardo Dio invisibile e sordo, è lo stesso.
E non parliamo di quando l’uomo, al mattino dopo, si sveglia e si ritrova davanti questo esserino di legno, dai movimenti schizzati e quasi demoniaci, inquietanti, eppure in un modo contorto e dolce persino, anche genuini, infantili come di vita che aspetta solo di essere incanalata.
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Ma se pensate che il Burattino di Del Toro sia solo per adulti, vi sbagliate di grosso, perché il regista non perde mai la bussola che lo guida, non si lascia mai tentare oltre il necessario e mantiene la storia per tutti, conscio del linguaggio universale dell’animazione, mezzo potentissimo, e di come “Pinocchio” sia una storia che ha un messaggio per ciascuno di noi.
Eppure, come solo gli autori migliori, quelli sinceri, quelli al servizio della storia e che mai desiderano schiavizzarla al proprio ego, ecco la nota di poetica propria, quella che già era emersa con le sue opere precedenti come “La Spina del Diavolo” e “Il Labirinto del Fauno”.
La Storia come sfondo per la Favola, la Favola per descrivere la Storia, il Momento nel Tempo che travalica la Clessidra e si fa Metafora e Visione.
Di là, la Guerra Civile Spagnola e il Franchismo, qui l’Italia del Fascismo e del Duce.
Ed è in quest’ottica che Del Toro, insieme con il co-sceneggiatore Patrick McHale, rilegge alcuni punti della storia di Collodi, che però, parimenti, ne mantengono immutato il significato più intimo e profondo.
Come il rapporto con il piccolo Lucignolo, che qui assume in primis un rapporto speculare tra figure paterne, con questo podestà che vede in suo figlio solo un giovane soldato che deve farsi uomo per il bene della Patria, e Geppetto, che invece, vuole solo che suo figlio sia quello che deve essere, un bambino.
Qui poi andrebbe aperta una nuova parentesi ancora, perché lo stesso Geppetto, lungo la storia, impara a sua volta un’importante lezione sul non desiderare che quella strana creatura di innocenza e legno sia chi non potrà e vorrà mai essere.
Ma sarebbe divagare e farne analisi sin troppo articolata di temi che magari avete anche voglia di veder svolgere sullo schermo, perciò torniamo alla Storia.
Che tutto trasforma sotto la sua lente, coi Balocchi che diventano Balilla, e dove il Paese diventa Caserma, con questi bambini che giocano alla Guerra.
Ma la Guerra è brutta, la Guerra è orribile, la Guerra non ha un senso, sopratutto agli occhi di chi ha negli occhi la scintilla di un sorriso che sa di purezza e non capisce perché doversi fare del male, quando le cose che ci uniscono sono più di quelle che ci dividono.
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È vernice rossa, sembra sangue, ma nel disincanto della nostra favola riesce nel suo meraviglioso intento di far arrivare il concetto.
Magari la strada si fa più in salita quando il buon Guillermo decide anche di dare palcoscenico ad un’altra sottotraccia, ad un’altra interpretazione dell’opera Collodiana, che è quella religiosa.
Il rapporto tra Creazione e Creatore, dove la Vita incontra la Morte e il ritorno da essa, dove spiegare la Fede diventa ostico a parole, eppure così semplice nel mostrarlo, con una domanda tanto semplice quanto intensa, sul perché tutti adorino quel signore di legno sulla croce eppure odiano Pinocchio, che di quello stesso legno è fatto?
La Fata Turchina qui diventa una Divinità dei Boschi, uno Spirito benevolo dalle fattezze che, insieme alla sua Sorella dell’Aldià, richiamano quelle di Sfingi e Chimere che si dilettano ad elargire in particolari momenti, che siano di gioia o dolore, doni ancora più particolari.
Anche qui la ricercata iconografia non è materia inedita per chi segue la filmografia del regista, sempre in nome di un fascino e di una eleganza anche dove solo in apparenza non ci si dovrebbe aspettare un simile pensiero creativo, ed invece.
Ed invece Del Toro sa che la leva che solleva lo spirito dello spettatore è anche nello stupore, nel trovare lati inediti di qualcosa che trascende il familiare e il popolare e diventa patrimonio di tutti.
Pinocchio è un simbolo, prima di tutto della disobbedienza, del ribellarsi alle regole e alle convenzioni, e sullo sfondo che il cineasta ha scelto, questa valenza raddoppia, si carica di una freschezza genuina. Disobbedire diventa un dovere, diventa l’andare contro qualcosa che non sentiamo giusto e che ci allontana da chi siamo davvero.
I livelli di lettura diventano così molteplici e multiformi come l’ingegno di chi ha profuso tanto impegno per metterli in scena, per tradurli da pensieri a fotogrammi, e mai come in questo caso la stop-motion ha raggiunto tale scopo in modo egregio.
C’è stato, infatti, un momento in cui questo film ha “rischiato” di essere tradotto in animazione tradizionale 2D per venire incontro ad un budget altrimenti, in quel momento, improbo, di quelli che poi portano una casa di produzione a decidere per il cassetto.
Ma Del Toro ha nicchiato, ha deciso ostinatamente che la sua visione doveva corrispondere a questa particolare cura, a questa precisa forma d’arte, dove ogni singolo passo porta dietro di sè un lavoro straordinario, che poi regala al pubblico quel piacere antico di favola intorno al focolare, anche quando il focolare è in realtà una smart TV connessa ad Internet.
A denti stretti, forse, eppure, una volta tanto, tocca proprio dire ‘Grazie’ a Netflix che ha reso possibile tutto questo, che ha reso questa magia l’opera che meritavamo di vedere, originale e rispettosa, divertente persino, dove anche il lavoro di adattamento nelle canzoni è più eccellente del solito riuscendo a rendere merito alla versione originale.
Anche se il doppiaggio, per quanto quelle voci siano ovviamente riconducibili a questo o quell’attore, non potrà mai davvero restituire le performance di nomi come Ewan McGregor, David Bradley, Gregory Mann, Tilda Swinton, Christoph Waltz, Finn Wolfhard, Ron Perlman (sul serio, poteva esserci un film di Del Toro senza la sua partecipazione?), Tim Blake Nelson, John Turturro e Cate Blanchett, che da la voce a Spazzatura, una scimmia.
Che solo quando arrivi ad un particolare snodo della trama, capisci questa curiosa scelta di casting, con uno dei personaggi che più sa catturare il cuore.
“Pinocchio” è davvero un bel film, un film che rimane, un film che merita di essere visto e fatto conoscere, uno di quelli che senti riuscirà anche a superare la prova del Tempo, al pari del suo protagonista, perché le parole, anche queste mie, volano via col vento della sera, ma un simile gioiello continua a risplendere a lungo, ed è questa la Magia del Cinema.
“Questa cosa ha un nome?” Sì, PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO.
“E che cosa sa fare?” Emozionare, mentre ci ricorda ancora una volta che l’animazione non è solo, ma anche per bambini, perché dove ti permette di arrivare non ha davvero confini!
Pinocchio di Guillermo Del Toro

Pinocchio di Guillermo Del Toro

Paese: USA; Messico
Anno: 2022
Durata: 121 minuti
Regia: Guillermo Del Toro, Mark Gustafson
Distribuzione italiana: Netflix
Doppiatori italiani:
Voto:

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