Ai microfoni di MegaNerd abbiamo avuto l’onore e il privilegio di avere uno degli scrittori inglesi più importanti del periodo a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Il co-creatore di Sentry, l’uomo che ha svelato il passato di Wolverine, uno dei più grandi sceneggiatori di Hellblazer: signore e signori, è con noi Mr. Paul Jenkins
C’è chi scrive storie di supereroi. E poi c’è Paul Jenkins, che scrive dentro i supereroi. Scava tra le ferite, le insicurezze, i dubbi esistenziali – che si tratti di uno scienziato con rabbia repressa (Incredible Hulk), della nemesi più ambigua del Cavaliere Oscuro (Batman: Jekyll & Hyde), di un dio dimenticato che teme il suo stesso potere (Sentry) o persino di un angelo caduto in un mondo cinico (Hellblazer).
Jenkins non racconta solo le azioni, racconta le fratture.
Britannico d’origine, ma americano d’adozione, la sua carriera abbraccia tre decenni e due universi narrativi, Marvel e DC, senza contare le sue incursioni nel fumetto indipendente e nel mondo della scrittura dei videogame. Durante le sue incursioni nell’universo della Casa delle Idee ha cercato di rimettere al centro del discorso l’umanità dei personaggi, con run indimenticabili su Peter Parker: Spider-Man e Inhumans (con cui ha vinto un Eisner Award, l’equivalente dell’Oscar nel mondo dei fumetti).
Il suo nome continua ad affascinare anche – se non soprattutto – chi cerca storie più sporche, più psicologiche, più vere.
Lo abbiamo raggiunto per una chiacchierata lunga e senza filtri: sulle origini della sua scrittura, sull’evoluzione dell’industria del fumetto, sul senso di raccontare personaggi straordinari pieni di fragilità molto umane. Ne è venuto fuori un ritratto ricco di riflessioni, aneddoti, e quella brillante ironia british che è il suo marchio di fabbrica.
Sedetevi comodi. Paul Jenkins ha qualcosa da raccontare.
Intervista a Paul Jenkins
Grazie per essere qui con noi su MegaNerd, Paul. Noi parliamo principalmente di fumetti e ti conosciamo come autore per la tua incredibile carriera. Ma hai fatto, e continui a fare, tante cose in campi come videogiochi, cinema, musica… Sei un vero artista a tutto tondo! Da dove arriva questa spinta creativa che ti porta a essere così poliedrico?
Penso che siamo tutti in parte il prodotto della nostra infanzia e in parte ciò che siamo destinati a diventare. Sapete, quel qualcosa che ci rende “noi”.
Quando ero bambino, mio padre se ne andò quando avevo cinque anni, e, con la mia famiglia, vivevamo in una roulotte. Poi siamo andati a vivere in una casa molto piccola, senza elettricità. Eravamo molto poveri e leggevo raramente i fumetti. Credo di aver sempre detto alle persone che, invece di leggere fumetti o guardare film — sapete, non lo faccio poi così spesso — io vivo. Vivo davvero intensamente, rendendo la mia vita un’esperienza che osservo e descrivo.
Quindi, se si guarda al mio lavoro nei fumetti, soprattutto, molto di quello che faccio è profondamente basato sui personaggi e sulle storie. Non è lì perché ho letto cento numeri degli Inumani. Infatti, quando ho lavorato su Inhumans [maxi-serie con Jae Lee che è valso ai due l’Eisner Award nel 1998], non ne avevo mai sentito parlare.
Ma tutto nasce dal vivere e dallo scrivere le nostre esperienze di uomini. Così, crescendo, pensavo che sarei sempre stato un creativo.
Sono sempre stato una persona creativa. Sono arrivato in America per insegnare musica e teatro. Ho studiato recitazione, volevo fare l’attore e ho scoperto che la creatività era ciò che mi rendeva felice, che mi faceva sentire al sicuro, dopo un’infanzia che, come dicevo, non è stata semplice. Facevo sport, giocavo a calcio, correvo. E scrivevo. Per me, la scrittura e la creatività sono sempre state un rifugio, un modo per esprimermi e, forse, per trovare un equilibrio.
Penso fosse semplicemente la ‘mia comfort zone’/ il luogo dove mi sentivo più al sicuro.
Prima di addentrarci nei tuoi lavori per le major di comics, parliamo un po’ dei Meta Studios, di cui sei uno dei fondatori. Cosa fate esattamente? Abbiamo visto che avete diversi progetti cross-mediali che riguardano film, graphic novel, videogiochi e… anche carte da gioco!
Beh, posso raccontarti cosa stiamo facendo in questo momento. Stiamo lavorando su diversi progetti, soprattutto nel campo dei videogiochi. Sto anche seguendo un paio di progetti cinematografici come sceneggiatore, ho anche lavorato come consulente per il film Thunderbolts* dei Marvel Studios.
Vivo ad Atlanta, in Georgia, dove ormai si gira tantissimo. Insegno regolarmente, e collaboro con Trilith Studios — che forse conoscete come i Pinewood Studios [celebre casa di produzione del Regno Unito, n.d.r.], che si sono trasferiti qui. Faccio parte del loro consiglio consultivo. Qualche anno fa ho anche presieduto una commissione per il governatore della Georgia dedicata al cinema e ai videogiochi.
Con Meta Studios ci concentriamo principalmente su contenuti creativi come film, animazione e soprattutto videogame. In questo momento la maggior parte del lavoro che stiamo facendo riguarda proprio i videogiochi: ne stiamo sviluppando due.
Abbiamo letto che come Meta Studios avete lavorato alla realizzazione di un gioco di carte, TCG phygital Exfinitum Omniverse, è uno dei vostri ultimi progetti.
Sì. Stiamo lavorando a Exfinitum Omniverse con un’azienda chiamata Yoton Yo Studios. Sono loro i publisher, e noi li stiamo supportando nello sviluppo del gioco — sia per quanto riguarda il design che per tutti i contenuti creativi.
Facciamo davvero tanti progetti diversi. Forse la mia fortuna è quella di poter lavorare in media diversi: cinema, animazione, videogiochi, fumetti… Non sono in molti a potersi muovere liberamente tra tutti questi ambiti. Noi invece riusciamo a costruire un progetto completo, attraversando piattaforme e linguaggi differenti.
Parliamo un po’ degli inizi della tua carriera. Abbiamo avuto l’onore di intervistare Kevin Eastman, con cui hai collaborato in Mirage sul fumetto delle Teenage Mutant Ninja Turtles e nella produzione della storica serie animata degli anni 90 a loro dedicata. Cosa ci puoi raccontare del periodo in Mirage che coincide con i tuoi primi anni in America?
Sono arrivato in America quando ero molto giovane, avevo vent’anni. Insegnavo musica e teatro a bambini con disabilità cognitive, ma allo stesso tempo suonavo in una band. È stato proprio in quel periodo che ho conosciuto i ragazzi della Mirage, Kevin Eastman e Peter Laird, a Northampton, nel Massachusetts, dove vivevo.
Loro realizzarono una copertina per il nostro album — ce l’ho ancora! Anche se non è mai stato pubblicato, quella copertina è rimasta insieme a me. Così abbiamo iniziato a conoscerci. Sai, cercare di vivere facendo il musicista è davvero difficile. Lavoravo anche come cameriere, o in qualche negozio, come spesso capita.
Poi per colpa di ‘come sono fatto io’ [ride] un giorno, mi sono rotto una caviglia giocando a calcio e quindi non ho potuto andare in tour con la band. Non avrei potuto suonare con loro per un po’.
Così chiesi ai ragazzi della Mirage: “Ehi, avete bisogno di una mano?”. Proprio in quel periodo avevano appena firmato un accordo per la linea di giocattoli e la serie TV [delle Teenage Mutant Ninja Turtles n.d.r.], e mi dissero: “Sì, siamo sommersi di lavoro, se vuoi vieni”.

Proprio in quel periodo avevano appena chiuso un accordo per i giocattoli e per la serie TV [delle Teenage Mutant Ninja Turtles n.d.r.], e mi hanno detto: “Sì, abbiamo davvero molto da fare in questo momento, ci stiamo lanciando in tutto.” Così ho iniziato a lavorare con loro.
Ho cominciato nei fumetti come editor, ma molto presto ho iniziato a occuparmi di licensing: vendevo i giocattoli, presentavo le idee e aiutavo le persone a realizzare prodotti legati alle Tartarughe Ninja. Avevo 22 anni quando è successo tutto questo, e all’improvviso era come se il mondo fosse esploso. È stato pazzesco, io ero molto giovane e catapultato in mezzo a tutto questo.
Mi affezionai molto sia a Kevin che Pete, erano bravissimi ragazzi, molto gentili e umili. Ma mi avvicinai particolarmente a Kevin. Siamo ancora oggi molto amici. È stato lui, in fondo, a darmi il mio primo vero lavoro. Non pensavo che sarei finito in questo settore: volevo fare il regista o il musicista. Ma mi sono ritrovato nel mondo del fumetto grazie alle Tartarughe Ninja, ed è così che è cominciato tutto.
(copertina di un’intervista tra i due amici Paul Jenkins e Kevin Eastman disponibile sul sito Kevin Eastman Studios)
Beh. Possiamo quindi dire ‘grazie’ a Kevin Eastman per averti instradato in questa carriera!
Sì, ma assolutamente grazie anche a Pete. Di recente abbiamo festeggiato un anniversario in New Hampshire, ed è stato bellissimo rivedere tutti. Ho potuto riabbracciare anche Pete e ne sono stato davvero felice. Non lo vedevo da parecchi anni, e ho potuto dirgli “grazie” dal profondo del cuore per avermi dato un’opportunità e un lavoro.
Non ero nessuno, e la maggior parte delle persone mi vedeva come, ‘il ragazzino che aiutava un po’ in ufficio’. E poi improvvisamente stavo lavorando presso la Tundra [casa editrice fondata da Eastman nel 1990 che chiuse nel 1993 n.d.r.]. L’ho fatto per diversi anni, prima di diventare uno scrittore. Quei due mi hanno davvero aperto le porte del mondo del fumetto.
Invece quale ruolo ha avuto Karen Berger, co-fondatrice della Vertigo, nel tuo approdo in DC per la tua carriera di scrittore di comics e nel tuo lavoro su Hellblazer?
Devo ringraziare Kevin e Pete, tanto quanto devo ringraziare Karen Berger e il mio editor, Lou Stathis, che era una persona meravigliosa. Sono queste le persone che mi hanno offerto la mia carriera, o meglio, che mi hanno dato una possibilità. Penso che non si possa semplicemente aspettare la propria occasione — devi creartela. Ovviamente, qualcosa di buono dovevo aver fatto. Ero decente nel mio lavoro. Ma ancora oggi non riesco a crederci. È davvero difficile da credere.
(In foto, Karen Berger)
La storia in poche parole è questa: ero in Inghilterra a trovare Alan Moore. Ero l’editor di Big Numbers [grapich novel incompiuta n.d.r.] di Alan Moore e Bill Sienkiewicz, e avevo fatto visita ad Alan a Northampton.
Mi mostrò un enorme schema che rappresentava tutti i personaggi dei dodici numeri della serie. Guardai quello schema, ed era incredibile. Stavamo parlando di fumetti in generale, ed erano i primi anni ’90.
Gli dissi: “Alan, vedo quello che fai, ed è incredibile. E poi guardo com’è la maggior parte dei fumetti, e non è affatto la stessa cosa”. Il lavoro di Alan era veramente superiore.
Gli dissi: “Sarò onesto, Alan, credo di pensare un po’ come te. Guardo questo schema e penso che bisogna capire i personaggi, il perché delle cose. Ma quando guardo molti fumetti, vedo solo immagini di supereroi con armi. È noioso. Penso che potrei farlo anch’io, sai? Secondo te dovrei provarci?”. E lui disse: “Sì, provaci”. Quindi devo dire grazie anche ad Alan.
Andai al San Diego Comic-Con e sentii dire che l’editor di Hellblazer, Lou Stathis, stava cercando un nuovo sceneggiatore.
(In foto, Lou Stathis)
Non so nemmeno come lo venni a sapere, ma mi presentai da Lou e gli dissi: “Ho sentito che stai cercando uno sceneggiatore”. E lui disse: “Sì, certo. Cosa hai scritto?”. E io risposi: “A dire il vero… non ho mai scritto nulla”.
Tutto questo è assurdo, ma Lou, non so perché, mi diede una possibilità e mi fece fare una prova. L’unica cosa che posso dire è che forse io e Karen ci eravamo già incontrati nel mondo del fumetto, ma quando non ero ancora uno scrittore.
Così mi fecero provare. Apparentemente c’erano altri 25 scrittori, forse anche Warren Ellis e altri nomi noti, che volevano scrivere Hellblazer, ma mi lasciarono provare.
Alla fine scrissi un numero di prova e sei settimane dopo mi chiamarono per dirmi: “Congratulazioni, sei il nuovo scrittore di Hellblazer”. Io risposi: “Okay…”. Una storia assurda!
Si dice spesso che non si possa entrare nel mondo dei fumetti da creativi in quel modo, tanto meno al Comic-Con… ma non è vero, perché è quello che è successo a me.
Sarò sempre grato a Karen Berger. E anche a Lou, ovviamente. Purtroppo, circa un anno dopo che iniziai a scrivere Hellblazer, Lou si ammalò di tumore al cervello e morì nel giro di poco tempo. Fu molto doloroso per tutti noi. Il mio editor divenne Axel Alonso, che all’epoca era il mio editor assistente su Hellblazer e poi sarebbe diventato editor-in-chief della Marvel.
Ho anche una storia piuttosto triste legata al giorno in cui ottenni il lavoro su Hellblazer. Quando ricevetti la telefonata da Lou della DC, che mi disse: “Congratulazioni“, io ero felicissimo, davvero.
Purtroppo, proprio quel giorno, uno dei miei migliori amici morì in un incidente stradale. È stato devastante. E infatti il mio terzo numero di Hellblazer è interamente dedicato a lui, che morì proprio quando ottenni quel lavoro.
Karen Berger ha puntato con grande forza sugli autori inglesi: durante la sua gestione, oltre a te sono approdati in Vertigo giganti del calibro di Neil Gaiman, Peter Milligan, Grant Morrison e altri. La rivoluzione del fumetto americano è partita dal Regno Unito. Ti va di raccontarci un po’ di quel periodo?
Certo. Innanzitutto, penso che ci sia un motivo se così tanti di noi provengono dal Regno Unito — io, Grant Morrison, Garth Ennis… insomma, molti di noi vengono dalla Gran Bretagna, e credo che non sia un caso. Siamo cresciuti leggendo fumetti di guerra, in particolare sulla Seconda Guerra Mondiale.
Siamo cresciuti con Action Comics e 2000 AD, e questo ci ha resi meno intimoriti dai supereroi americani. Ho notato spesso che molti autori statunitensi si fanno molte domande, tipo: “E se sbaglio Superman?”, “E se non lo interpreto nel modo giusto?”. Invece per noi britannici era più facile: quei personaggi non erano “nostri” in senso patriottico. Questo ci ha permesso di scrivere storie più audaci, più interessanti, senza la paura costante di commettere un errore.
Ricordo quando iniziai a lavorare su Spider-Man. La gente mi diceva: “Ma non ti preoccupa il fatto che ormai siano già state raccontate tutte le storie possibili?” E io rispondevo: “È sbagliato pensarlo.” Dicevano lo stesso di Hellblazer, dopo Garth Ennis. Ma io pensavo: “È un fumetto, dobbiamo solo scrivere grandi storie, no?”.
Quindi, credo che quello sia stato davvero un periodo speciale. Ovviamente lo era, perché eravamo molto seguiti. E se oggi guardi indietro a quel gruppo di autori, ti rendi conto che era una squadra davvero forte. Era un bel momento, davvero.
Ero stato anche editor di Neil Gaiman per un periodo, quando lavoravo per Tundra, dove conobbi Neil. Avevo stretto amicizia con Grant [Morrison].
Con Garth [Ennis] ci siamo visti qualche volta, anche se non lo conosco molto bene, ma con molti altri scrittori — come Warren Ellis, per esempio — ci conoscevamo un po’ tutti. Eravamo “i britannici”, ed è stato un periodo piuttosto folle.
In quegli anni ci chiedevano semplicemente di scrivere le storie che volevamo scrivere. Nessuno ci diceva cosa fare. Ci chiedevano: “Cosa vorresti scrivere?” Noi proponevamo le idee e, se erano buone, dicevano: “Fallo”. È stato davvero un momento speciale.
Oggi ci sono Autori inglesi che ti sentiresti di suggerire alle major del fumetto?
Autori britannici? Eh, è difficile da dire… Intendi autori di libri o sceneggiatori di fumetti?
Sceneggiatori di fumetti.
Sai, non ne sono sicuro. E in parte è perché uno dei vantaggi che ho sempre avuto nel mondo del fumetto è che… non so praticamente nulla di fumetti. Lo so, suona assurdo, ma il fatto è che, non avendo passato la vita a leggere tutti questi fumetti americani, non conoscendoli a memoria, non ci sono cresciuto. Questo mi ha permesso di non preoccuparmi troppo dei personaggi, di non avere un atteggiamento reverenziale.
C’è anche un’altra risposta alla tua domanda: da britannico, non mi sono mai fatto problemi con i personaggi americani. Potevo fare qualcosa di interessante con Superman, ad esempio, proprio perché non avevo quel tipo di “sacro rispetto” che magari ha chi ci è cresciuto.
E poi c’è un aneddoto divertente — ed è tutto vero. Una volta, alla Marvel, Joe Quesada mi chiese: “Ehi, conosci qualche autore che mi potresti raccomandare?”. E io gli dissi: “Sì, sto lavorando con Todd McFarlane, e conosco un tizio che si chiama Brian Bendis, con cui sto lavorando su Sam and Twitch. Magari dovresti fargli una telefonata”.
Ecco, Brian ha ottenuto il lavoro alla Marvel perché l’ho consigliato io a Joe Quesada.
Constantine è un antieroe cinico e disilluso. Qual è stato l’aspetto più divertente o stimolante da esplorare nel tuo periodo su Hellblazer?
Ok, allora, la prima cosa che direi è che ogni autore ha una sua idea personale di un personaggio. La mia opinione è diversa da quella di Warren Ellis, che è diversa da quella di Garth Ennis. Chiaramente abbiamo tutti visioni differenti.
Per me, John funziona molto bene come personaggio, se ti ricordi che non ha poteri.
È intelligente, certo, ma quello che John sa davvero fare è guardare il diavolo dritto negli occhi… e il diavolo è il primo a distogliere lo sguardo. È quel tipo di persona. E sa che non puoi usare la magia a cuor leggero. Se provi a usarla, ti costa più di quanto ottieni. Usare la magia ha un costo molto elevato, quindi lui evita di farlo.
E penso che viva in un mondo dove tutti gli altri barano, usano la magia, e lui è l’unico che non lo fa. Quindi per me, scrivere John è qualcosa che viene abbastanza naturale, no?
E soprattutto quando si parla dei personaggi che ho creato io, come Rich il punk o Michelle… sono tutte persone reali. Rich, il punk, ad esempio, è mio fratello Richard.
Ho vissuto nell’epoca del punk e sono cresciuto con il punk rock. Vivevo nel West Country, in Inghilterra, quindi in una campagna piena di magia. E potevo semplicemente scrivere John come… come un vecchio punk, fondamentalmente. Potevo scriverlo come un tizio che aveva vissuto quell’epoca, proprio come me, come mio fratello.
Uno che era diventato cinico verso il governo, verso le grandi aziende. E che riconosceva la follia che a volte vediamo nel mondo di oggi — tutte quelle discussioni, la politica — cose che John, e io, e mio fratello, e tanti punk come noi vedevamo già allora. E quindi dicevamo: “No, tutto questo non fa per noi.”
Perciò scriverlo era molto naturale. Era intelligente, sì, ma era soprattutto qualcuno che aveva capito che la magia non si può usare davvero. Devi usare l’immaginazione, la mente, l’intelligenza. Devi essere coraggioso non avendo paura.
E credo che sia proprio questo a renderlo un personaggio così affascinante: non è perfetto. C’è qualcosa di profondamente umano in lui.
Il fatto che fumi sigarette, per esempio, e quell’immagine ricorrente di lui che si accende una sigaretta… è diventata iconica.
È una delle cose che definisce davvero John Constantine per quello che è.
Quindi, per me, si trattava semplicemente di scrivere di noi, dei punk, del West Country inglese dove sono cresciuto, parlare della magia della campagna britannica. Tutto lì.
Prima hai parlato della tua collaborazione con Alan Moore, creatore (tra le tante cose) anche di Hellblazer. Hai qualche aneddoto o qualche episodio interessante da raccontarci su di lui? Per noi comuni lettori mortali lui è come un dio, una leggenda, un mito…
Oh sì, ne ho parecchi! Posso dirvi questo: Alan è davvero come un mago; un grande mago barbuto.
Quando l’ho conosciuto ero solo un ragazzo. Stavamo lavorando su Big Numbers e From Hell, e io ero l’editor. Non usa il computer, quindi ha solo un telefono fisso. Ogni volta che lo chiamavo, dicevo: “Ciao Alan, sono Paul Jenkins”, e lui rispondeva con la sua voce profonda: “Ciao Paul, tutto bene?”
Dopo aver lasciato la Mirage e Tundra, circa 10, 12 o 15 anni dopo, avevo bisogno di contattarlo di nuovo. Lo chiamai e appena gli ho detto: “Ciao Alan, sono Paul Jenkins” lui ha risposto con la stessa frase di sempre, come se il tempo non fosse passato.
Alan è una persona davvero gentile, tranquilla e a modo. Un grande uomo davvero. Ma c’è una cosa interessante, che mi è stata chiesta varie volte…
Non posso parlare per gli altri, ma sono una delle persone che ha incontrato John Constantine. L’ho visto.
Anche Neil [Gaiman] l’ha incontrato. L’ho visto in una paninoteca a Londra, l’ho incontrato mentre andavo a vedere la mia squadra di calcio in Inghilterra, il Crystal Palace.
Stavamo per andare allo stadio, e mentre ero in mezzo a questa folla sulla banchina del treno, guardai giù verso i binari per vedere se arrivava il treno… e a circa 30 metri di distanza, Constantine si sporse, mi guardò, fece un cenno col capo e poi rientrò subito. Rimasi tipo: “Ma che diavolo…?“
Alan mi ha raccontato anche la sua storia di quando ha incontrato Constantine.
Era in cucina, di notte, e stava preparando un panino usando solo la luce del frigorifero. A un certo punto sente il rumore di un accendino che accende una sigaretta e, con la coda dell’occhio, vede Constantine che gli dice qualcosa.
La cosa è questa: quello che Constantine gli ha detto è davvero volgare. Volete saperlo cosa gli ha detto? [ride].
Certo!
Ve l’avrei detto comunque [ride].
Gli ha detto: “Sai qual è il segreto della magia? Chiunque, cazzo, può farla.” (“Do you know the secret to magic? Any cunt can do it.“).
Sì, è una parola un po’ pesante, ma rende bene il tono del personaggio.
La cosa buffa è che Alan, per essere un “mago”, è in realtà una persona molto normale, di grande gentilezza. Non ho mai avuto una conversazione con lui che non fosse piacevole. È fantastico.
Un artista con cui hai realizzato diversi capolavori nel mondo dei comics è Jae Lee. Penso a Batman: Jekill & Hyde, Sentry e la maxiserie che vi è valso il premio Eisner: Inhumans. Su quest’ultimo progetto vorrei chiederti: è vero che l’idea iniziale è partita proprio da Jae Lee?
Sì, l’idea iniziale per Inhumans è stata di Jae Lee. Ci conoscevamo già da un po’. Lui aveva il suo fumetto personale, Hellshock, ma stava passando un momento difficile con quel progetto. Non riusciva mai a finire gli episodi. E conosco Jae: a volte disegna una pagina bellissima, qualcosa che ti fa venire da piangere, e poi, se non gli piace, la strappa e la butta. Molto da artista tormentato, no?
Avevamo pensato di fare un crossover Hellshock/Hellblazer, ma non sapevamo bene da dove partire. Un giorno, mentre stavo lavorando a casa, Jae mi chiamò e mi disse: “Ehi, Joe [Quesada] e Jimmy [Palmiotti] di Event Comics hanno ricevuto un incarico da Marvel per curare una piccola linea chiamata Marvel Knights. Mi hanno chiesto con chi volevo lavorare, e io ho fatto il tuo nome, Paul.”
È stato un regalo. Jae mi ha dato la possibilità di lavorare con lui su quel fumetto. Così gli dissi: “Certo, è fantastico!” E lui: “Cosa ne pensi degli Inumani?” E io: “Mai sentiti nominare!” [ride]
Mi mandarono due piccoli albi da cinque pagine. Dissi: “Tutto qui?” Scrissi Inhumans basandomi solo su quello. Non avevo bisogno di leggere tutte le vecchie storie. E sono stato fortunatissimo, sia a lavorare con Jae, che con Joe e Jimmy come editor. Un grazie speciale va anche a Nancy Dakesian, la moglie di Joe Quesada, che fu fondamentale nel tenere insieme tutto e nel far completare a Jae ben 12 numeri di Inhumans, e poi anche 5 numeri di The Sentry. Fu davvero un’impresa, all’epoca. [ride]
La tua interpretazione degli Inumani ha approfondito il lato politico e sociale della loro società. Quali sono state le ispirazioni dietro questa visione?
Questa forse sembrerà una risposta un po’ strana, magari anche sbagliata… ma no, non mi sono ispirato al lavoro di nessun altro, perché non lo faccio mai. Non traggo ispirazione da opere altrui, semplicemente non ne ho bisogno. La mia ispirazione viene dalla vita, dall’osservazione, dal fare esperienza, capite?
Quando mi mandarono quei due racconti brevi di Jack Kirby, capii subito che cosa poteva diventare questa storia. Per esempio, gli Alpha Primitives sono degli schiavi, o meglio lo erano, e poi sono stati liberati. Ma per me era un chiaro riferimento alla schiavitù in America, cioé persone che sono arrivate come schiavi e le cui famiglie sono state liberate. Ma in realtà non erano veramente libere, perché non avevano le stesse opportunità degli altri.
Black Bolt è un re, giusto? Ma è un re che non può parlare. Non può usare le sue parole. E questo per me somigliava molto a un presidente, o comunque a una figura di potere. Non puoi dire tutto quello che pensi, perché ogni parola può creare un problema. Lo vediamo anche oggi nella politica — i politici dicono un sacco di cose, e spesso sono solo fonti di guai.
Le Nebbie Terrigene? Per me rappresentavano la pubertà, la transizione dall’infanzia all’età adulta. Insomma, per me tutto sembrava una metafora dell’America. Ho potuto scrivere una storia che parlava del conflitto americano, del
la povertà, delle disuguaglianze. C’erano persone al vertice del potere, come Black Bolt, che è il più potente, il re. Allora mi sono chiesto: chi c’è dall’altro lato? Chi è all’estremo opposto? La risposta era: qualcuno di povero.
Tutto il racconto, alla fine, parla dell’America. E poi c’è la parte dell’intrigo, e sono stato molto felice che Medusa fosse un personaggio così importante nella storia.
Il mio episodio preferito è quello con protagonista Lockjaw [capitolo 8 intitolato Woof n.d.r.], che ho trovato molto divertente nonostante si svolga in un momento molto importante e cruciale della storia. Ma la situazione è vista da un punto di vista diverso.. quello di un cane!
Sono stato felicissimo di scrivere quell’episodio, perché penso che lui [Lockjaw] sia un grande personaggio. E in fondo… è solo un cane, giusto? Vuole semplicemente uscire, fare pipì nel bosco, vuole giocare. E’ solo un cane.
Ma secondo me ha un grande significato il fatto che, alla fine, vada da Black Bolt, che è molto triste perché porta il peso del regno, e Black Bolt lo accarezzi. Queste sono le cose che ci danno i cani, no?
Poteva benissimo essere la storia di un cane qualunque. L’unica differenza è che questo è il cane degli Inumani. E può teletrasportarsi.
Sei l’autore che ha rivelato uno dei segreti più grandi della Marvel: chi è realmente Wolverine. Cosa hai pensato quando Marvel ti ha dato un compito così importante e come sei arrivato a dire ai lettori “Okay. Logan si chiama James Howlett e questa è la sua storia”?
Innanzitutto, direi che tutto parte da ciò che dicevo prima. Sai, noi britannici… non credo che abbiamo davvero paura di qualcosa. Personalmente, non mi sono mai preoccupato di affrontare questa storia. Non ho mai avuto paura di raccontarla. Molti mi avevano avvertito che avrei dovuto, ma sapevo che il cuore del mio lavoro è sempre stato nei personaggi e nella narrazione, quindi non avevo problemi ad affrontarla.
Il progetto è nato durante una conferenza editoriale organizzata da Joe Quesada. In quell’occasione stavo parlando con l’editore Bill Jemas, discutendo dell’andamento generale delle cose. Mi sembrava che molti editor, in quel periodo, fossero spaventati all’idea di proporre storie nuove. Temevano di perdere il lavoro, anche a causa delle dinamiche che Marvel aveva avuto in passato.
Joe e Bill volevano trasmettere loro maggiore fiducia. Io ero lì come consulente: avevo un passato da editor e come autore avevo già scritto Inhumans, che aveva avuto ottimi risultati. A un certo punto, Bill mi chiese perché sembrassi giù di morale, dato che solitamente mi mostro piuttosto positivo. Gli risposi: “Dipende, vuoi che ti dica la verità o ciò che preferiresti sentirti dire?” Lui mi disse che voleva la verità.
Così gli dissi: “Marvel si definisce la Casa delle Idee, no? E allora perché ogni volta che viene proposta una buona idea, la risposta è sempre no?” Era una risposta un po’ provocatoria, ma sincera. E Bill fu d’accordo con me. Mi chiese cosa avessi in mente.
Gli raccontai di una conversazione che avevo avuto con Grant Morrison. Mi diceva che, anche dopo aver fatto Arkham Asylum, ogni volta che proponeva un nuovo progetto si sentiva rispondere: “Non siamo sicuri che sia una buona idea.” E lui replicava: “Ma perché no? Ho già dimostrato di saper fare buone storie.”
Ecco, il problema era proprio questo: a tutto si rispondeva ‘no’. Se era un crossover, no. Se era una storia ambiziosa, no. Spesso per paura. Ma paura di cosa, esattamente?
Da lì nacque, quasi insieme, un’idea condivisa tra me e Bill: perché non raccontare finalmente le origini di Wolverine? Sono trentacinque anni che non ricorda nulla… perché non raccontare da dove viene?
Per me era piuttosto semplice: ha un fattore rigenerante. Se lo ferisci, guarisce. Quindi ho pensato: magari ha vissuto un trauma così profondo, simile al disturbo post-traumatico, che il suo fattore rigenerante ha “curato” anche il cervello, cancellandone i ricordi.
Presentammo l’idea agli editor e ognuno di loro rispose di no. “Non si può fare.” Ma Bill chiese: “Perché no? Mi dite che non si può, ma nessuno riesce a spiegarmi il motivo.”
Molto di Wolverine: Origin, soprattutto nei primi numeri, parla in realtà della mia infanzia. È letteralmente ispirato a me, quando vivevo in fondo a una collina, sotto una fattoria. Potevamo giocare con i figli dei contadini, ma non eravamo invitati alle loro feste di compleanno. Era una questione di povertà, di differenze sociali.
Tanto della mia esperienza personale è confluita in quella storia. E come per ogni racconto che ho scritto, non ho mai avuto paura di parlare delle persone.
Credo che Origin abbia funzionato proprio per questo: non parlava di Arma X o di esperimenti scientifici, ma di chi fosse veramente Wolverine, come essere umano.
Quindi è stata una buona idea raccontare la vera origine di Wolverine? Assolutamente sì. Rispondevamo a tre domande fondamentali: qual era il suo vero nome, dove e quando era nato, e perché non ricordava nulla.
E, rispondendo a quelle tre domande, ne abbiamo generate centomila nuove. Ed è proprio questo il punto. Quelle erano le domande giuste.
Hai scritto una lunga run di Peter Parker: Spider-Man. Di cosa aveva bisogno Spidey quando sei arrivato e quale obiettivo ti sei posto quando hai preso in mano la serie? Sappiamo che non eri molto d’accordo sul fatto che M.J. all’epoca fosse stata considerata morta…
A dire la verità, trovavo che fosse tutto noioso. Avevano già ucciso praticamente tutti, e poi hanno fatto morire anche Mary Jane, semplicemente per infliggere a Peter un’altra tragedia. Ma era una tragedia vuota, non significava nulla.
Era come se Marvel non credesse più in se stessa, né nel potere di una storia semplice, in grado di toccare le emozioni, che è poi ciò che cerco di fare io con la mia scrittura: smuovere qualcosa nel lettore.
Ricordo che tutto iniziò circa due anni prima che cominciassi a scrivere Spider-Man. Ralph Macchio [editor e scrittore, nonché per anni Editor-in Chied di Marvel n.d.r.] mi chiese se fossi interessato a scriverlo, ma io risposi di no. Non perché volessi rifiutare a priori, ma perché, sinceramente, non sapevo da dove cominciare.
Non leggevo fumetti, non conoscevo la Saga del Clone, e, a dire il vero, non mi interessava nemmeno. Poi, un giorno, mi venne un’idea.
Nacque per una serie chiamata Webspinners, che scrissi prima ancora di iniziare con Peter Parker.
In quella storia, immaginai Peter come intrappolato da tutto il suo passato narrativo: storie, tragedie, traumi. In particolare, aveva vissuto un’esperienza devastante con il Camaleonte, che lo tormentava. E si rendeva conto di essere prigioniero della cosiddetta continuity; la morte di zio Ben e tutte le altre perdite.
Nel numero che scrissi, Peter era costretto a rivivere tutte queste tragedie: la morte del Capitano Stacy, quella di zio Ben.
Mentre le affronta, si ritrova circondato dai suoi antagonisti storici: il Dottor Octopus, Goblin, l’Avvoltoio… ed è lì che vuole restare. Vuole tornare a un passato semplice. E quella era la mia dichiarazione d’intenti: volevo tornare alla semplicità. Proprio quando quelle figure scompaiono, si apre una porta, e da lì esce Gwen.
Ho sempre creduto che Gwen fosse il suo vero, primo amore. Lei gli dice che deve tornare indietro. E lui risponde: “Non voglio. Voglio restare qui con te.” Ma lei gli risponde: “Non puoi. Stai sognando. Devi svegliarti.” Ecco, in quel momento, capii che potevo davvero scrivere Spider-Man.
Così dissi a Ralph: “Adesso ho capito cosa fare. Voglio riportare Spider-Man alla semplicità, a storie autoconclusive.”
La cosa più importante che mancava, secondo me, era il suo senso dell’umorismo. Aveva perso quel tratto distintivo. Un tempo, vinceva contro il Dottor Octopus perché riusciva a distrarlo con una battuta e Octopus, non avendo alcun senso dell’umorismo, cadeva in trappola.
Era questo che dava significato alle sue vittorie.
Mi affidarono il titolo e iniziai a lavorarci con Mark Buckingham. Due britannici che raccontavano le storie dell’eroe americano. Abbiamo costruito storie semplici, essenziali.
E ancora oggi, probabilmente, il fumetto che ho firmato di più non è Wolverine: Origin, ma Peter Parker: Spider-Man n. 33, una storia che ruota attorno al baseball.
È una storia che parla di un bambino e di una figura paterna, o dello zio. È una riflessione su cosa significhi volersi bene. È un racconto molto potente per tanti lettori. Spesso vengono da me con il volume tra le mani, commossi, anche in lacrime.
Scrissi quella storia mentre ero in Inghilterra, per salutare mio nonno che stava morendo. Io vivo negli Stati Uniti, ma tornai per vederlo un’ultima volta. Il giorno in cui lo salutai sapevo che sarebbe stato l’addio. Tornato sull’aereo e scrissi quell’episodio mentre lui moriva.
Era un racconto su come condividiamo l’amore per la nostra famiglia attraverso piccole cose: il calcio, il baseball, le festività natalizie. Nella storia, zio Ben e Peter andavano sempre insieme alle partite di baseball, e la loro squadra perdeva sempre. Ma l’anno che vincono, due giorni dopo zio Ben muore. E tutta la storia ruota attorno a questo.
Non so davvero quante persone mi abbiano chiesto di firmare quel numero. Lo amano profondamente.
Penso che tu abbia davvero colto l’essenza di Spider-Man. Sì, credo che tu lo abbia compreso molto meglio di tanti altri autori negli ultimi anni.
Sì, penso che quello fosse il mio Spider-Man, no? Sai qual è la cosa incredibile di quell’albo? È stato il più amato in assoluto. Tantissime persone mi hanno chiesto di firmarlo. E sai qual è il dettaglio assurdo? In tutta la storia c’è una sola vignetta in cui Peter è vestito da Spider-Man.
L’intero racconto parla di un bambino e di suo zio, e c’è solo quella singola immagine in cui indossa il costume. E la verità è che mi hanno costretto a inserirla, perché inizialmente non c’erano immagini di Spider-Man nel fumetto.
Questo dimostra quanto la storia sia importante, e quanto, in un certo senso, lo sia meno il supereroe. Parla di noi, delle persone. E penso che sia proprio questo che ho sempre cercato di portare nei fumetti.
Di cosa pensi avrebbe bisogno OGGI Peter Parker?
Beh, credo che, se mi chiamassero e mi dicessero “Cosa faresti?”, io risponderei: “Farei quello che ho fatto prima.” Inizierei scrivendo storie autoconclusive, così che tu possa leggere un numero, avere una storia completa e finirla, e quella è la tua storia, giusto? Non c’è bisogno di fare numeri multipli, capisci? Mi dicevano di scrivere storie di cinque numeri per i volumi da collezione. La mia risposta era: “Perché non prendete semplicemente cinque dei miei numeri autoconclusivi e li mettete insieme in un volume da collezione? Non c’è bisogno di complicarsi la vita.”
Una storia autoconclusiva è così potente e bella, e ti permette di esplorare ogni tipo di idea. Sai, nel corso della mia carriera, sono venute persone a mostrarmi numeri singoli di Spider-Man, molto più che, per esempio, di Inhumans. Perché gli Inumani aveva un arco narrativo di 12 numeri, mentre Spider-Man era fatto di numeri singoli. Alcuni di questi erano anche solo divertenti.
Ne abbiamo fatto uno chiamato Snow Day, che parlava di come Spider-Man doveva uscire nella neve, faceva un freddo cane e non riusciva nemmeno a fare presa su nulla.
A un certo punto, dei bambini gli tirano delle palle di neve, e lui dice: “Beh, incontrerò l’Avvoltoio. Sai dove ci siamo affrontati per la prima volta?” E si mette ad aspettare su un ponte o qualcosa del genere, e l’Avvoltoio gli risponde: “Non è il posto dove ci siamo affrontati per la prima volta.” Aveva sbagliato ed era stato solo divertente e stupido, ma va bene così, perché ti puoi rilassare, leggere Spider-Man, goderti la storia e poi andare avanti, capite?
Parliamo di Sentry, una delle tue creazioni originali per la Marvel. Quando avete iniziato a pensare al personaggio doveva essere una sorta di risposta Marvel a Superman oppure era chiaro da subito che dovesse essere diametralmente opposto? Ovviamente non puoi sottrarti a questa domanda…
In realtà, no. Non è mai stato concepito come la risposta della Marvel a Superman. Forse nel tempo ha assunto quel ruolo agli occhi del pubblico, ma l’origine del personaggio è molto diversa.
All’epoca stavo lavorando per Vertigo su Constantine e dissi a Karen [Berger, n.d.r.] che mi sarebbe piaciuto scrivere qualcos’altro. Alla DC esisteva un personaggio chiamato Hourman, e mi sembrava perfetto per una reinterpretazione in chiave Vertigo.
L’idea era quella di un uomo che assume una pillola che gli dona poteri sovrumani per un’ora, dopodiché tutto svanisce. Pensai che questo concetto potesse prestarsi molto bene a una riflessione sulla dipendenza: nelle restanti 23 ore del giorno, il personaggio non avrebbe pensato ad altro che a prendere un’altra pillola.
Volevo raccontare una storia che trattasse tematiche legate alla malattia mentale e alla dipendenza, ovviamente in linea con il tono maturo di Vertigo.
Karen mi rispose che l’etichetta non pubblicava storie di supereroi, ma trovò l’idea interessante e mi incoraggiò a creare un personaggio del tutto nuovo. Così nacque The Sentry.
Inizialmente lo proposi alla Marvel, che rifiutò. Poi lo presentai alla DC, e anche in quel caso ricevetti un rifiuto. Tentai nuovamente con la Marvel, senza successo.
Successivamente, però, vinsi un Eisner per Inhumans, che fu il mio primo lavoro per la Marvel. Dopo quel riconoscimento, l’editore mi chiese: “Cosa ti piacerebbe fare adesso?” . Risposi senza esitazione: “Vorrei lavorare su The Sentry.”
A quel punto, mi diedero il via libera e io e Jay [Lee] abbiamo potuto finalmente dare vita a quel personaggio.
Il primo arco narrativo di Sentry è stato acclamato per la sua profondità psicologica. Come hai lavorato per bilanciare il lato umano e quello sovrumano del personaggio?
Be’, in fondo a ogni storia c’è sempre l’aspetto umano. L’elemento supereroistico, da solo, non significa nulla. Non importa davvero.
Anche una spettacolare battaglia tra titani come Hulk e l’Abominio – una scena che ho avuto modo di scrivere in passato [durante la sua run su Hulk n.d.r.] – perde ogni significato se il lettore non si sente coinvolto nelle vicende personali dei personaggi.
Quindi non sento il bisogno di bilanciare l’umano e il sovrumano, perché alla fine, ciò che racconto sono sempre e solo le persone, le loro fragilità, i loro conflitti interiori.
Nel caso di Bob (cioè The Sentry), era un uomo che affrontava numerosi problemi legati alla salute mentale: era schizofrenico, agorafobico, e soffriva anche di disturbo borderline di personalità. Era costantemente in lotta con sé stesso.
E credo che sia proprio questo il motivo per cui lo amo così tanto come personaggio: compie un sacrificio incredibilmente eroico. Rinuncia ad essere un eroe per salvare il mondo.
Alla fine sceglie di diventare un signor nessuno, pur di proteggere tutti. E per me questo è ciò che rende davvero eroico un uomo comune.
È molto più eroico di un supereroe con muscoli enormi che corre in battaglia facendo rimbalzare i proiettili sul petto, senza preoccuparsi. Quello non è coraggio: quello è avere poteri che ti proteggono.
Bob, invece, è davvero coraggioso. Rinuncia all’unica cosa che lo rende speciale, pur di proteggere tutti dalla minaccia di Void.
Il rapporto Sentry/Void, a mio parere, racchiude all’interno di sé il concetto filosofico cinese dello Yin e Yang: due parti che si contrappongono ma alla fine complementari. Un po’ come il bene e il male, che hanno un loro equilibrio.
Sì, esatto. È proprio quello che chiamiamo “dualità”, no? Come in Dr. Jekyll e Mr. Hyde: c’è un lato buono e uno cattivo, e questi due sono in guerra dentro la stessa persona. Nel caso di Sentry, ho voluto portare questa idea all’estremo.
Ho fatto in modo che per ogni cosa buona che lui faceva, Void ne facesse una cattiva. E per ogni cosa terribile che faceva Void, lui ne faceva una buona. Era tutto in equilibrio. E questa era la sua maledizione: non poteva essere solo Sentry, l’eroe che salva il mondo, perché Void era sempre lì, pronto a bilanciare tutto con qualcosa di distruttivo.
È una cosa che ho trovato davvero significativa. È come se ci fosse sempre qualcosa di oscuro che incombe su di lui, qualcosa che gli impedisce di essere come Superman.
Superman arriva, risolve tutto e via, come fosse magia. Ma il mio approccio è diverso. Proprio come con Constantine, ogni potere ha un prezzo. E con Bob, quel prezzo è altissimo.
Tra poco uscirà il film dei Thunderbolts dove saranno protagonisti Yelena Belova/ Florence Pugh, che ha esordito nella tua maxiserie sugli Inumani, ma soprattutto ci sarà proprio Sentry, che sarà interpretato da Lewis Pullman. Hai avuto un ruolo da consulente per il personaggio che vedremo al cinema? Cosa ti aspetti da questa versione live action?
Sì, ho lavorato come consulente per il film. Vivo ad Atlanta, che è proprio dove hanno girato, quindi sono stato fortunato. Lavoro un po’ in vari ambiti, e in questo caso ho collaborato come consulente.
Credo che il film sarà… divertente, davvero. È figo, interessante. Però, ovviamente, non posso dire troppo, perché queste cose riguardano la Marvel, no? Non vogliono che io riveli quello che so sul film.
Quello che posso dire, però, è che — e lo si capisce già dal trailer — non sarà un film per bambini.
È un progetto pensato più per un pubblico adulto, e secondo me ha davvero del potenziale. Penso che vi innamorerete dei personaggi di Thunderbolts*.
E per quanto riguarda Sentry, il fatto che sappiamo già che comparirà nel film degli Avengers significa che ci sono piani più ampi in corso. E c’è una cosa molto bella per me, che ho già menzionato: ho firmato un contratto che mi permette di scrivere la sceneggiatura per un film su Sentry. Quindi… incrociamo le dita!
Quindi le voci su un possibile film stand-alone di Sentry e sul fatto che potresti essere coinvolto sono vere?
Se ci sarà davvero un film su Sentry, allora sarò io a scriverlo. E penso che questa sia una cosa davvero interessante, e che la Marvel dovrebbe valorizzarla.
Prima di tutto, perché sono un bravo sceneggiatore — scrivo buone sceneggiature, questo lo so. Ma soprattutto, credo che sarebbe una mossa intelligente da parte della Marvel affidare la sceneggiatura al creatore del personaggio.
Per me sarebbe un bel segnale, il riconoscimento del lavoro dei creatori originali. Un modo per dire: “Sì, sappiamo che questi personaggi esistono grazie a voi, e riconosciamo quanto avete contribuito a tutto questo.”
Perché, diciamolo chiaramente, se oggi esistono franchise che incassano miliardi, è anche — e soprattutto — grazie a chi quei personaggi li ha creati da zero. Quindi sì, spero davvero che la Marvel lo capisca e che mi permetta di scrivere quel film.
Prima abbiamo citato Batman: Jekyll & Hyde, la mini per il Cavaliere Oscuro che hai realizzato insieme a Jae Lee e Sean Phillips. Come ti sei trovato a “guidare” tra le strade di Gotham? Da lettore ti dico che sembravi straordinariamente a tuo agio, a tal punto che è un peccato che ci sia stata solo quella storia…
Sapete, Batman: Jekyll & Hyde è uno dei fumetti che ho scritto e che riscriverei all’infinito. Ho amato profondamente raccontare quel personaggio nelle vesti di detective.
Mi è stata data l’opportunità di esplorare un aspetto inedito di Harvey Dent. Ho potuto raccontare che suo fratello era morto, e che la metà del volto sfigurata rappresenta proprio quel fratello, Murray.
Harvey è talmente sopraffatto dal senso di colpa per la sua morte, da arrivare a credere che Murray stia prendendo il controllo di metà del suo corpo. Questo ci aiuta a comprendere più a fondo la sua trasformazione. Dopotutto, non si diventa folli solo perché qualcuno ti getta dell’acido in faccia. Ci si ferisce, certo, ma non si impazzisce.
Tuttavia, se si subisce un evento del genere avendo già dei problemi profondi, allora quello può essere il fattore scatenante della follia.
Quindi sono sempre stato davvero orgoglioso di quell’albo. Era diviso in due parti, una disegnata da Jay [Lee] e una da Sean [Phillips], i due artisti con cui ho lavorato e che, grazie al loro talento, hanno dato rilevanza alla mia carriera.
Mi piacerebbe molto poter scrivere ancora storie simili. Ma credo che la vera domanda sia: il mondo del fumetto oggi ha ancora spazio per autori come me? Al momento non ne ho la sensazione. Se ci fosse ancora interesse per storie che abbiano un significato profondo, allora sarei assolutamente disponibile. Ma attualmente sembra che quel tipo di contenuto non interessi più.
Visto l’annuncio recente della nuova linea Marvel Knights (MK) che vede il ritorno di Joe Quesada in Marvel, c’è qualche possibilità di vedere anche te in qualche progetto collagato? Magari proprio su Sentry…
Non lo so. Davvero, non so quale possa essere la risposta. Penso che ci sia solo un modo per affrontare la questione.
Se volessero coinvolgermi, dovrebbe essere perché desiderano che io faccia ciò che so fare. Se invece volessero qualcosa di diverso da me, allora mi chiedo: che senso avrebbe?
Certo, potrei accettare, ma solo se mi venisse concessa la stessa libertà creativa che mi è stata data in passato. E non so se Marvel sia ancora in grado di offrire quel tipo di libertà, quindi non saprei. Suppongo che questa sia una domanda da rivolgere a Joe [Quesada].
Ok, chiaro. Quindi qual’è il tuo prossimo progetto a fumetti?
Al momento, lavoro principalmente nel settore dei videogiochi. Non ho molti progetti legati ai fumetti.
In realtà, non seguo più molto da vicino l’industria del fumetto. Ho ancora molti amici nel settore, certo, ma sono così impegnato in altri ambiti che… ecco, credo che tornerei ai fumetti se i fumetti volessero davvero il mio ritorno. Se capite cosa intendo, e non ha nulla a che fare con l’ego, ve lo assicuro.
Semplicemente, penso che se il mondo del fumetto avesse bisogno di me, allora sarei pronto a tornare. Ma se così non fosse, lo capisco perfettamente. Ho comunque altri progetti a cui dedicarmi.
Speriamo che molto presto l’industria del fumetto ti ricontatti e che tu possa rispondere alla chiamata.
Sì, insomma… tutto quello che devono fare è chiamarmi. Lo scopriremo!
Grazie mille per essere stato con noi, Paul, è stato davvero un grande onore.
Grazie a voi. Lo apprezzo davvero ragazzi. Grazie di cuore. Con un po’ di fortuna, speriamo di incontrarci presto.