Animeland, il documentario di Francesco Chiatante – Recensione

Abbiamo visto il documentario autoprodotto Animeland – Racconti tra manga, anime e cosplay, opera prima diretta dal regista Francesco ChiatanteIl film non ha avuto una vera e propria distribuzione, eppure sta pian piano diventando sempre più popolare tra gli appassionati.

Ogni tanto è giusto lasciarsi andare ai ricordi. Capita a volte, magari tra una chiacchiera e l’altra con gli amici, di parlare dei pomeriggi felici, quando il futuro era solo un progetto lontanissimo senza difetti. Immancabilmente, in quelle chiacchiere, si finisce a parlare di cartoni animati. Siamo la generazione cresciuta a sigle e contenitori tv dopotutto, i ragazzi lasciati con una babysitter catodica rassicurante e buona per tutte le stagioni; i bimbi sperduti che si rifiutano di crescere.

Animeland è un racconto delicato che coinvolge chi lo guarda senza mai alzare la voce. Pacatamente, narra una parte della nostra storia, quella fondamentale per la formazione di chi scrive: l’arrivo prima in tv e poi su carta delle opere provenienti dal Giappone.

Abbandonato il totalitarismo americano dell’intrattenimento, l’Italia, a partire dalla fine degli anni ’70, aprì le porte a un immaginario per questo Paese rivoluzionario. I ragazzi si lasciarono rapire da avventure che li riguardavano da vicino, che parlavano della loro formazione e di quanto fosse difficile crescere.  Contrariamente a quanto accadeva sino ad allora, la felicità forzata e lo scontato lieto fine lasciarono il posto ad opere che trattavano gli spettatori, anche piccoli, con un’umanità rivoluzionaria.

Questo cambio di rotta è la testimonianza che Animeland condivide con gli spettatori.

Attraverso i ricordi di Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Caparezza, solo per citarne alcuni, Francesco Chiatante alla regia, raccoglie le parole commosse di chi ricorda preziosi tasselli della propria infanzia e adolescenza, fasi scandite dal passaggio di Heidi e Conan il ragazzo del futuro e, ovviamente, l’invasione robotica che ha stravolto per sempre la cultura pop anche dell’Italia oltre che del suo Paese d’origine.

Diversi aspetti fanno di Animeland una testimonianza preziosa che può solo arricchire il background di chi ha già una buona base sull’animazione e sulla tradizione fumettistica giapponese. Per chi di questa parte di mondo ne sa poco o nulla, i racconti, che s’incastrano perfettamente durante il suo adagio, hanno la capacità di far intendere quanto sia importante questa parte di storia che riguarda tutti noi. È impensabile comprendere determinanti aspetti dei tempi culturali che viviamo se dovesse mancare questo passaggio o peggio, venisse erroneamente ignorato.

Indubbiamente di spessore e davvero piacevoli da ascoltare sono i contributi di Luca Raffaelli, Vincenzo Mollica e Maurizio Nichetti. Ed è qui che Animeland colpisce nel segno e svela nella sua interezza tutto l’intento. È vero, il documentario posa il proprio sguardo sulla produzione nipponica, ma giustamente concede respiro a un discorso che non può che riguardare l’arte fumettistica e animata di qualsivoglia nazionalità.

Mentre scrivo, mi torna in mente quanto detto da Mollica lungamente intervistato:

Per me Dostoevskij, nella mia formazione culturale, è stato importante quanto Hugo Pratt, quanto Andrea Pazienza, quanto Dino Battaglia, quanto Crepax, quanto Milo Manara, per non parlare della famiglia di tutti i topi e i paperi disneyani.

È un delitto fare ancora discriminazioni. Il fumetto è parte essenziale della nostra cultura tanto quanto le sue sorelle maggiori quando si parla di arte. Stesso dicasi per l’animazione. E se è la produzione del Sol Levante a farla da padrone, non poteva mancare in Animeland il contributo dei Kappa Boys, per me degli eroi nazionali, che all’inizio degli anni Novanta, sono stati tra i primi ad introdurre i manga nel mercato italiano e a diffondere in Italia la cultura del fumetto  giapponese. Un lavoro fondamentale quello di questi ragazzi, oggi un po’ cresciuti, che crederono in un progetto culturale di cui possiamo solo essere grati.   

Il documentario non tralascia nulla e certo non poteva che concedere il giusto spazio all’animazione, non solo seriale, posando lo sguardo sul Maestro Hayao Miyazaki e la sua proverbiale poetica del racconto, ormai entrata di diritto nel nostro immaginario collettivo al pari dei classici Disney. per importanza e bellezza. Così come non poteva essere trascurato il lato commerciale che ruota intorno alla passione per una cultura così lontana che si è ricavata il suo spazio nella nostra vita. Le fiere di settore, il fenomeno del cosplay, in incessante espansione, disquisito in modo interessante e per nulla scontato. Credo che si possa parlare di colpo grosso se si riesce a intervistare Goldy, il cosplayer giapponese in grado di realizzare le migliori armature robotiche in circolazione (vedere per credere).

Animeland è uno sguardo attento.  Arriva senza la pretesa di imporsi o di saperne più di altri. Educatamente condivide il suo pensiero con chi lo osserva e, dopo averlo visto, lascia una consapevolezza maggiore che sì, il nostro affetto per una cultura lontana, ci completa generosamente e non dobbiamo mai dimenticarcene.

 

 

 

Sig.ra Moroboshi

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Contro il logorio della vita moderna, si difende leggendo una quantità esagerata di fumetti. Non adora altro Dio all'infuori di Tezuka. Cerca disperatamente da anni di rianimare il suo tamagotchi senza successo. Crede ancora che prima o poi, leggerà la fine di Berserk.

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