Shirley Jackson – L’Autrice che scriveva con un manico di scopa

L’Incubo di Hill House“, “Abbiamo sempre vissuto nel Castello“, “La Lotteria“, “Lizzie“. Opere letterarie immortali che hanno segnato in maniera indelebile il genere horror gotico. Opere che hanno un comune denominatore: donne vessate, depresse e in un perenne stato di disagio. Gli stessi sentimenti che ha vissuto l’autrice di questi romanzi immortali nella sua breve vita. Scopriamo assieme la figura di una scrittrice straordinaria, considerata da Stephen King la sua “legittima madre artistica”. Signore e Signori ecco a voi Shirley Jackson!  

copertina the book is on the table Shirley Jackson

Quella di Shirley Jackson è una storia di vessazioni e di solitudine. Sin da bambina ha dovuto subire pesanti critiche a causa del suo aspetto fisico. La madre addirittura la definì «un aborto mancato». Da adulta si sposò con  Stanley Edgar Hyman, un noto intellettuale ebreo dell’epoca, ma la sua vita non fu felice. Oppressa da un marito dispotico e poco fedele, uno che la voleva sempre un passo indietro. Addirittura la nascita della Jackson venne collocata nel 1919 (sebbene essa sia avvenuta il 14 dicembre 1916) per non far apparire la donna più anziana del famoso marito.

A causa di questo e di molto altro, la Jackson sviluppò una grave forma di depressione che la portò ad isolarsi dal resto del mondo e a sviluppare il suo enorme talento per la scrittura.

Shirley Jackson, un’autrice multiforme

Parecchi anni dopo la sua morte, la famiglia Hyman rinvenne in un fienile del Vermont degli scatoloni contenenti documenti della loro madre scomparsa venticinque anni prima. All’interno vi trovarono il manoscritto originale de “L’incubo di Hill House” con gli appunti dello sviluppo dei personaggi e delle scene, diversi racconti inediti ed una pletora di scritti in forma di diari, poesie, drammi teatrali, sezioni di romanzi incompiuti. Il lungo lavoro di ricostruzione di quel prezioso materiale culminò in un libro uscito nel 2015 con il titolo di “Let me tell you“.

Una selezione di questo materiale è arrivata in Italia nel 2018  grazie ad Adelphi e alla sapiente traduzione di Silvia Pareschi. Il titolo del libro in questione è “Paranoia” e, per molti versi, questo testo rappresenta il testamento artistico di questa immensa autrice definita da Stephen King come sua «legittima madre artistica».

Ruth Franklin, scrittrice e critica letteraria autrice di “Shirley Jackson: A Rather Haunted Life“, la più autorevole tra le biografie di Shirley Jackson (ancora inedita in Italia), definisce “Let me tell you” un contenitore di una moltitudine di Shirley Jackson. Caratteristica questa che è riconosciuta dalla stessa Jackson e che diventa il nucleo narrativo di uno dei suoi romanzi di maggior successo “The Bird’s Nest“, tradotto in Italia con il titolo di “Lizzie”, sempre edito da Adelphi) in cui la protagonista soffre di un disturbo dissociativo della personalità.

Paranoia è un libro suddiviso in due sezioni. La sezione che riguarda la narrativa è costituita da quattro racconti inediti mentre quella più interessante è decisamente la sezione che riguarda la saggistica. Qui infatti si ha un’idea chiara di come Shirley Jackson sia stata un’autrice “multiforme”. Da questi scritti emerge infatti una donna che ama costruirsi un personaggio a metà tra l’amorevole casalinga e la strega amante dell’occulto.

Una condizione di assoluta realtà descritta nelle sue opere

L’immagine della scrittrice casalinga emerge con dissacrante umorismo dalla descrizione che da della sua quotidianità. Una condizione di assoluta realtà alla quale nessun essere vivente riesce a mantenersi sano di mente (come recita l’incipit de “Incubo a Hill House”, dal mio punto di vista uno tra i più belli e potenti della letteratura moderna) e da cui cerca di fuggire rifugiandosi nella fantasia.

«La mia situazione è particolarmente toccante. […] Sono una scrittrice che, a causa di una serie di ingenui e inconsapevoli errori di giudizio, si ritrova con quattro figli e un marito, una casa di diciotto stanze senza domestica, due alani, quattro gatti e – sempre che sia ancora vivo – un criceto. Forse da qualche parte c’è anche un pesce rosso. […] Mentre rifaccio i letti e lavo i piatti e vado in paese a cercare le scarpette da ballo, mi racconto delle storie. Storie su qualunque cosa. Semplici storie. Dopotutto, chi può concentrarsi sui propri gesti mentre passa l’aspirapolvere? Io mi racconto delle storie. Ne ho una fantastica sul cesto della biancheria che ora non posso raccontare, e poi storie sui calzini mancanti, sugli elettrodomestici della cucina, sui cestini della carta straccia, sui cespugli lungo la strada che porta a scuola, praticamente su ogni cosa. Mi mantengono attiva, le mie storie. Forse quella sul cesto della biancheria non la scriverò mai – anzi, sono quasi certa che non la scriverò –, ma finché so che lì c’è una storia posso andare avanti a separare i bianchi da quelli colorati.»

Lo spiccato senso di ironia che trabocca dalla descrizione della sua condizione di scrittrice e casalinga è in forte contrasto con il carattere cupo e tormentato dei personaggi che racconta. Shirley Jackson cerca con un sorriso di seppellire quella che è la sua condizione nell’epoca in cui essere donna rappresenta un forte elemento discriminatorio. Shirley Jackson vive in un perenne disagio. Un disagio che riflette nelle figure femminili protagoniste dei suoi romanzi.

Nel racconto  “La Lotteria” (“The lottey or The adventure of James Harris”, 1949) , in un piccolo villaggio di poche centinaia di persone ci si prepara all’annuale lotteria che, come da tradizione, dovrebbe portare buon augurio per un raccolto ricco e prosperoso. I preparativi avvengono in clima frivolo e sereno, ma qualcosa di inquietante si comincia delineare nel comportamento della comunità che partecipa alla festa. L’orrore sarà evidente al termine della storia in cui scopriamo in cosa consiste il premio riservato al “fortunato” vincitore della riffa. A farne le spese sarà una donna che, in questo caso, diventa una vera e propria vittima sacrificale. Quando il “New Yorker” pubblicò “La Lotteria”, Shirley Jackson era ancora una promettente scrittrice.

Ne lei ne la redazione del celebre magazine si aspettavano la reazione che avrebbe scatenato questo racconto. Centinaia di lettori telefonarono in redazione per chiedere spiegazioni, minacciarono di disdire l’abbonamento alla rivista. La maggior parte, però, voleva capire cosa significasse davvero quel racconto e da dove fosse venuta l’idea per una simile storia. Fu l’inizio del successo.

In “Lizzie” (“The Bird’s Nest“, 1954) la protagonista Elizabeth Richmond è una donna che non sembra avere altri progetti che quello di aspettare «la propria dipartita stando il meno male possibile». Elizabeth vive un ingannevole tranquillità tra mille dolori, emicranie e ricorrenti amnesie. Un medico geniale e ostinato, dopo aver sottoposto la donna a lunghe sedute ipnotiche, rivelerà la presenza di tre personalità sovrapposte e in conflitto tra di loro. È solo l’inizio di un inabissamento di un’identità frammentata e impossibile da ricomporre.

In “Abbiamo sempre vissuto nel castello” (“We have always lived in the castle”, 1962)  vengono rappresentate le due anime che hanno vissuto dentro la Jackson in una sorta di convivenza tormentata: quella assoggettata e quella ribelle. E’ la storia delle due sorelle Blackwood  che vivono da recluse in una grande casa assieme all’anziano zio. La quiete quotidiana e l’equilibrio mentale di una delle due sorelle (la protagonista Merricat) viene interrotta dall’arrivo di un intruso che dietro una patina di perbenismo mira ad accaparrarsi le ricchezze racchiuse nella casa.

La storia ha un epilogo drammatico che porta il resto della comunità, da sempre ostativa nei confronti delle due sorelle a causa del loro oscuro passato, a distruggere la casa ma non la volontà delle due di ricominciare una nuova vita invisibili al resto del mondo.

Infine, in “Incubo a Hill House” (“The Haunting of Hill House”, 1959) , un gruppo di persone viene radunato da un sedicente scienziato per far parte di un progetto di ricerca finalizzato a studiare gli eventi paranormali che avvengono in una casa infestata. Tra queste c’è la giovane Eleanor che accetta di far parte dell’esperimento per sfuggire ad una vita triste e priva di soddisfazioni. Inutile dire che a farne le spese sarà proprio Eleanor che, nel tentativo di rimanere sana di mente, cade succube della casa in un drammatico epilogo.

Tre storie che presentano forti elementi gotici in cui la componente romantica si fonde con quella dell’orrore in uno scenario costituito per lo più da ambienti cupi, tenebrosi e da grandi case «che drizzano la testa imponenti contro il cielo senza concessioni all’umanità». Ma sono anche le storie di donne mai felici che portano avanti la loro vita tra piccole colpe e grandi rimproveri, un tedio costante e una disperazione senza fine. Donne che non hanno mai scelto di diventare schive e timide, donne sole senza nessuno da amare.

«Non ricordava di essere mai stata davvero felice nel corso della sua vita adulta; gli anni con la madre si erano accumulati con dedizione fra piccole colpe e piccoli rimproveri, un tedio costante e una disperazione senza fine. Senza aver mai scelto di diventare timida e schiva, aveva trascorso tanto tempo sola, senza nessuno da amare, che le riusciva difficile parlare con qualcuno, anche del più e del meno, senza impiccio e un’imbarazzante incapacità di trovare le parole» [Introduzione del personaggio di Eleanor Vance –  “L’incubo di Hill House”]

L’elemento gotico delle opere della Jackson è rappresentato esclusivamente dal contesto ambientale in cui si sviluppa la narrazione. L’antico castello della famiglia Blackwood o il labirintica tenuta di Hill House (dove «qualunque cosa si muovesse si muoveva da sola») sono location e pretesti perfetti affinché le paure (e le colpe) dei protagonisti possano emergere in superficie. Di cosa abbiamo realmente paura ? Abbiamo paura di noi stessi. Abbiamo paura di vederci per quello che realmente siamo. O peggio, abbiamo paura semplicemente di rimanere soli.

Shirley Jackson morì nel sonno l’8 agosto 1965 all’età di quarantotto anni a causa di un’insufficienza cardiaca, dopo un lungo periodo in cui ebbe un esaurimento nervoso accompagnato da un’acuta agorafobia che la trattenne chiusa in casa per diversi anni. La morte la colpì quando era in forte ripresa tanto che stava scrivendo un romanzo divertente, con uno stile dai toni molto distanti rispetto a quelli cupi e negativi a cui ci ha abituato. Purtroppo non riuscì a terminare questo romanzo. Il giorno dopo la sua morte il “New York Times” fece uscire un necrologio con il quale descrisse Shirley Jackson come «l’autrice che non scriveva con una penna ma con un manico di scopa».


Recupera qui gli altri episodi di The Book is on the Table, la nostra rubrica sui libri

 


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