“The Running Man” (pubblicato in Italia come “L’uomo in fuga”) non è soltanto la storia di un individuo in lotta contro il mondo. All’origine è la storia di due uomini: uno sarebbe diventato una delle voci più influenti della narrativa di genere contemporanea; l’altro, invece, avrebbe dimostrato ben poca lungimiranza.
Stephen King approccia la fantascienza distopica

Quello brillante risponde al nome di Stephen King. King racconta di aver scritto “The Running Man“ nel 1972, in una sola settimana durante le vacanze di Natale. All’epoca aveva appena venticinque anni e non era ancora il Re dell’horror che tutti conosciamo. Quello fu il periodo in cui lo scrittore del Maine conobbe la fame: lo stipendio da insegnante alla Hampden Academy era di appena 6.400 dollari l’anno, una somma che non bastava a tirare avanti.
In estate, il buon Stephen dovette integrare le entrate lavorando alla New Franklin Laundry per la miseria di 60 dollari alla settimana: un’occupazione che oltre a non garantire uno stipendio sufficiente toglieva energia e tempo prezioso al suo unico sogno, ossia diventare uno scrittore di professione.
L’uomo dalla visione miope è l’editore di Ace Books, tale Donald A. Wollheim. Quando Wollheim ricevette da Stephen King il manoscritto de “L’uomo in fuga”, lo restituì al mittente dopo tre settimane con una nota succinta: «Non siamo interessati alla fantascienza che tratta utopie negative».
Mettendo da parte il fatto che un tale di nome George Orwell, già venti anni prima, ha mostrato come la fantascienza distopica potesse essere uno strumento narrativo potente per denunciare le crepe della società contemporanea, vale la pena raccontare la trama de “L’uomo in fuga” per darvi l’idea esatta della distanza intellettuale tra Stephen King e Donald A. Wollheim.
Una distopia che sta diventando realtà

La storia è ambientata in un’ipotetico futuro, il 2025. Gli Stati Uniti sono diventati un Paese senza reali prospettive, dove la povertà è diffusa e i media tengono in pugno l’opinione pubblica con programmi brutali, veri e propri spettacoli gladiatori travestiti da intrattenimento di massa. Il protagonista Ben Richards ha bisogno di denaro per curare la figlia Cathy malata di polmonite. Ha perso il lavoro a causa delle sue idee troppo critiche verso la società e la corporazione per cui lavorava.
Spinto dalla disperazione, decide di partecipare a uno dei giochi della Games Federation, la casa di produzione televisiva che produce contest violenti in cui i concorrenti possono guadagnare denaro solo riuscendo a sopravvivere. Nello specifico Richards è selezionato per il più importante di questi giochi, “L’uomo in fuga“. In questo gioco, il partecipante diventa il criminale più ricercato del Paese.
Gli vengono concesse dodici ore di vantaggio, dopodiché una squadra speciale chiamata “i cacciatori” e gli stessi spettatori dello show, motivati da ricche ricompense, iniziano a dargli la caccia con un unico obiettivo: ucciderlo. Se il concorrente riesce a sopravvivere per 30 giorni a questa sua condizione di ricercato nazionale potrà ottenere il premio finale, oltre agli eventuali bonus accumulati eliminando i poliziotti d’élite che gli danno la caccia.
Ciò che nel 1972 appariva come un futuro remoto è diventato, oggi, un presente sconfortante. L’utopia negativa di cui parlava Donald A. Wollheim, tralasciando il gioco televisivo basato sull’uccisione dei concorrenti (anche se l’influenza spesso tossica dei social ci ricorda che non siamo poi così lontani da certi eccessi), non ha oggi nulla di fantascientifico. Già cinquant’anni fa King, in pochi giorni di scrittura febbrile, aveva delineato uno scenario che si è rivelato in maniera inquietante vicino alla nostra realtà.
Wollheim non seppe cogliere la portata del manoscritto che gli capitò tra le mani.
L’origine dei racconti death game

Fortunatamente non tutti gli editori mostrarono la stessa miopia dell’Ace Books. Stephen King pubblicò “L’uomo in fuga” dieci anni dopo, nel 1982, quando era ormai uno scrittore affermato. Lo fece però sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, scelta su cui non ha mai fornito una motivazione chiara. Forse temeva che il romanzo, considerato minore, non fosse all’altezza di portare il suo nome in copertina; oppure voleva semplicemente fare un esperimento narcisistico, mettendo alla prova il successo dell’opera senza l’effetto del suo nome oramai celebre. In Italia, “L’uomo in fuga” è arrivato due anni dopo, nel 1984, grazie alla collana antologica “Urania” edita da Mondadori.
Dal punto di vista narrativo, “L’uomo in fuga” si affianca a “La lunga marcia” (di cui è in arrivo l’attesissima trasposizione cinematografica diretta da Francis Lawrence): due romanzi che condividono struttura, atmosfera e tematiche. A mio avviso sono tra le opere più riuscite dell’immensa produzione di King e rappresentano veri precursori dei racconti death game che oggi dominano l’immaginario collettivo, come “Alice in Borderland”, “Squid Game” e “Hunger Games”.
L’adattamento di Paul Michael Glaser

Accade spesso che da i romanzi di Stephen King vengano tratte degli adattamenti per il cinema. Nel caso de “L’uomo in fuga” le trasposizioni cinematografiche sono addirittura due. La prima è del 1987 dal titolo “L’implacabile“, pellicola diretta da Paul Michael Glaser. Ne “L’implacabile” il ruolo di Ben Richards venne affidato ad Arnold Schwarzenegger che, in quell’anno grazie al suo fisico scolpito, era già un’icona simbolo di forza e virilità che rivaleggiava con Sylvester Stallone. “L’implacabile” appare come una libera interpretazione del romanzo di King dove si punta sulla presenza carismatica di Schwarzenegger per spingere forte sul pedale della componente action. Il risultato è un film godibile ma che sembra perdere per strada la cupezza e la profondità dell’opera originale.
L’adattamento di Edgar Wright

Quasi quarant’anni dopo, Edgar Wright torna con un nuovo adattamento che sin dalle prime scene rivela la volontà di non realizzare un semplice remake del film di Paul Michael Glaser, al netto di qualche doveroso omaggio a Schwarzenegger (tra cui il suo bel volto presente sulle banconote). Il regista della celebre trilogia del Cornetto (“L’alba dei morti dementi“, “Hot Fuzz” e “La fine del mondo“), nonché del bellissimo “Ultima notte a Soho“, sceglie di restare fedele allo spirito e alle atmosfere del romanzo di Stephen King, tanto che il Re ha approvato la sceneggiatura dopo aver letto appena cinque pagine con un entusiastico: «Avete centrato il punto»
La Derry City ritratta da Wright è un luogo che proviene da un futuro distopico dal fascino retro-futurista, dove la distanza sociale tra chi possiede tutto e chi non ha nulla si percepisce in ogni dettaglio: dalle insegne dei negozi al contrasto tra le luci al neon calde e i quartieri in rovina, fino alle aree più opulente. Wright fonde elementi vintage con tecnologie avveniristiche tipiche di un futuro remoto, costruendo un ambiente teso e paranoico perfetto per raccontare l’arena urbana in cui Ben Richards è costantemente in fuga e braccato.
Alcuni temi ripresi fedelmente dal romanzo originale risultano oggi terribilmente attuali: tra questi, l’uso della tecnologia deepfake, con cui il Sistema manipola le immagini per orientare e controllare l’opinione pubblica. “The Running Man“ si conferma così un’opera di forte critica sociale, ma Edgar Wright sceglie di non trasformarla in un film apertamente politico. Il regista restituisce all’azione un ruolo prevalente, e lo fa con grande efficacia: il risultato è un film adrenalinico, visivamente spettacolare e dal ritmo travolgente.
Glen Powell erede Arnold Schwarzenegger

A raccogliere la pesante eredità di Arnold Schwarzenegger e Glen Powell, attore sul quale Hollywood sembra puntare parecchio. Powell ha rivelato di aver seguito lezioni specifiche di corsa e di essersi confrontato con Tom Cruise, un vero maestro nel mettersi in gioco per ottenere il massimo dell’intrattenimento. Il set con il quale l’attore di Austin si è confrontato sfrutta molto poco la CGI: le esplosioni sono reali così come le evoluzioni acrobatiche. Powell riesce a tenere bene la scena grazie al suo aspetto da duro e una sottile vena autoironica che lo rende un guerriero solitario dallo spiccato lato umano. Dobbiamo però ammettere che, e potrà risultare banale dirlo, non ha lo stesso carisma di Schwarzenegger.
Oltre a Glen Powell va evidenziata anche la prova attoriale di Josh Brolin. Brolin si conferma attore di grande livello e versatilità. Il suo Dan Killian (che somiglia maledettamente al Norman Osborn di Willem Dafoe), il produttore del programma televisivo, è un personaggio cinico e spietato. Dan Killian incarna un sistema che si nutre di spettacolo e violenza e rappresenta il perfetto antagonista di Ben Richards: Killian è la calma glaciale, Richards è un concentrato di adrenalina che esplode in ogni sequenza.
Un film adrenalinico che fa riflettere

“The Running Man” è un film che ci ha divertito tantissimo. Spettacolare, intelligente e capace di intrattenere senza rinunciare alla riflessione, l’opera di Wright rende giustizia al romanzo di Stephen King. Lo stile visivo e l’estetica del suo regista sono palpabili ad ogni fotogramma. “The Running Man” è un film che corre veloce, proprio come il suo protagonista, ed è un’esperienza appagante stargli dietro. Soprattutto, “The Running Man” è l’occasione di riscoprire “L’uomo in fuga” di Stephen King, un romanzo da molti considerato “minori” ma tra i più crudeli e cinici tra quelli realizzata dal Re dell’horror.
“The Running Man” è al cinema a partire dal 13 novembre, distribuito da Eagle Pictures

The Running Man
Glen Powell: Ben Richards
Josh Brolin: Dan Killian, il produttore del programma
Colman Domingo: Bobby Thompson, il conduttore di The Running Man
Lee Pace: Evan McCone, un cacciatore
Emilia Jones: Amelia Williams
Michael Cera: Elton Parrakis, un ribelle che aiuta Ben
Daniel Ezra: un concorrente di The Running Man
William H. Macy: un uomo che aiuta Ben nella fuga
Jayme Lawson:
David Zayas: Richard Manuel
Katy O'Brian: Laughlin
Karl Glusman:
Sean Hayes:

