Negli ultimi anni il nome di Ram V è diventato sinonimo di scrittura raffinata e immaginazione fuori dagli schemi. Nato in India e cresciuto tra Londra e Mumbai, Ram V ha conquistato lettori e critica grazie a un approccio alla narrazione che intreccia poesia, inquietudine e un forte senso di umanità. Dai vicoli oscuri di Detective Comics, dove ha ridisegnato i toni gotici di Gotham City, alle atmosfere mistiche e viscerali di Swamp Thing, fino alle divinità cosmiche della nuova serie dei New Gods, la sua firma è ormai riconoscibile: storie che scavano in profondità, capaci di unire il respiro epico al dettaglio intimista.
In questa intervista ci addentriamo nel cuore del suo processo creativo: parleremo di ispirazioni letterarie, delle sfide legate al lavorare con personaggi iconici della DC Comics e del suo modo di intendere il fumetto come linguaggio universale. Con Ram V non si parla solo di supereroi: si parla di identità, di radici culturali e del potere che le storie hanno di connettere persone e mondi lontani.
Mettetevi comodi: su MegaNerd è arrivato Mr. Ram V
Intervista a Ram V
Ciao Ram, benvenuto su MegaNerd. Partiamo dall’inizio: qual è stato il percorso che ti ha portato a scrivere fumetti? Da dove è nata la scintilla che è divampata in una carriera così promettente, in continua ascesa?
Fin da bambino ero interessato ai fumetti, e in realtà leggevo più fumetti europei che americani. Crescendo, leggevo Phantom, Mandrake, Flash Gordon, Tin Tin e Asterix. Leggevo anche roba della Archie Comics. Gli unici che non leggevo erano quelli Marvel e DC Comics!
Poi, verso i 13 o 14 anni, mio padre mi disse che era ora di leggere ‘libri seri’, così smisi di leggere fumetti per molto tempo. Più tardi mi trasferii negli Stati Uniti per studiare ingegneria chimica—avevo 19 anni—e un amico mi diede da leggere il primo volume di Sandman. Mi sconvolse. Fu l’inizio della mia scoperta dell’etichetta Vertigo, che diventò il mio secondo ingresso nel mondo dei fumetti, una seconda infanzia, in un certo senso.
Da lì, ho seguito il percorso fino in fondo: ho letto tutto Neil Gaiman, Alan Moore, Grant Morrison, Warren Ellis, Peter Milligan… Tutto quello che Vertigo offriva.
Alla fine, sapevo di amare i fumetti, ma non pensavo ancora di diventare uno scrittore. Ho lavorato come ingegnere chimico e ho viaggiato molto. Poi nel 2013 — quasi dieci anni dopo il mio arrivo negli USA—ho lasciato l’ingegneria e ho iniziato a scrivere in modo semi-professionale. All’inizio scrivevo narrativa, e neppure allora pensavo ancora ai fumetti.
Finché un amico mi disse: “Hai uno stile molto visivo, dovresti provare a scrivere fumetti.” Così ho realizzato il mio primo graphic novel, autoprodotto nel 2016: Black Mumba. Era una raccolta di storie noir in bianco e nero ambientate a Mumbai, che sembravano gialli ma senza veri crimini—quella era la sorpresa.
Quel libro è andato molto bene e mi ha aperto le porte del mondo del fumetto: da lì è partita la mia carriera.
Nel 2018 inizia la tua avventura in DC, che dura ancora oggi (e da lettore spero duri ancora parecchi anni). Com’è stato per te approcciarsi a una realtà così grande, con personaggi che oltre a essere dei supereroi sono delle vere e proprie icone della cultura pop?
In realtà sono sempre stato meno affascinato dai personaggi in sé, e più dalle storie che si possono raccontare attraverso di loro. Forse perché il mio approccio a questi personaggi è stato un po’ diverso dal solito. Prendi Batman: il mio primo incontro con lui non è stato nei fumetti, ma nella serie animata. Nei fumetti, l’ho visto per la prima volta in un numero di Sandman, insieme a John Constantine.
Quindi il mio punto di vista è sempre stato un po’ diverso. Ciò che amavo davvero era il mezzo, il fumetto in sé, e le possibilità narrative che offre. Per questo non ho mai provato soggezione nel raccontare “icone della cultura pop”. Il mio obiettivo era semplicemente scrivere buone storie.
Sono stato anche fortunato: il primo racconto breve che ho scritto per DC è stato su Swamp Thing, e il primo lavoro per Marvel su Wolverine. Ho cominciato subito con personaggi molto noti. Ma, di nuovo, per me non era questione di essere intimiditi dalla fama di questi personaggi, era sempre e solo questione di narrazione.
Durante la tua run di Swamp Thing hai introdotto un nuovo avatar, Levi Kamei, un giovane scienziato che come te viene dall’India. Cosa rappresenta per te questa nuova incarnazione del personaggio e quanto c’è di Ram V in Levi Kamei?
Già, allora… bisogna tornare indietro e capire perché Swamp Thing è un personaggio così interessante per le persone. E quando dico Swamp Thing, intendo la versione fondamentale, quella che ho conosciuto attraverso la run di Alan Moore. Mi sono chiesto: perché quella run è stata così impattante e significativa per chi l’ha letta?
Penso che il motivo sia che il personaggio lottava con la propria umanità: era umano? Post-umano? Pianta? Cos’è che definisce l’umanità? Sono le domande che Moore poneva. Ma sentivo che quelle domande erano già state esplorate negli anni ’80. Quindi, perché scrivere una nuova serie nel 2020 che chiede le stesse cose?
I fumetti fanno spesso così: restano ancorati alle storie passate. Io invece volevo prendere ciò che amavo di quella run e chiedermi: come posso trasmettere lo stesso tipo di emozione con una domanda che oggi è davvero rilevante?
Per me, nel 2020, quella domanda era: l’identità. Negli anni ’80 avevamo un’identità chiara: eri europeo, americano, indiano. Ma io ho passato metà della mia vita fuori dall’India. Amo l’India, metà dei miei fumetti parlano dell’India, ma ormai ho vissuto più tempo all’estero. Quindi mi chiedo: chi sono? Sono indiano? Americano? Sono ancora legato alle mie radici o devo piantarne di nuove?
È questa la domanda che mi sembrava più attuale. E Levi è diventato il mezzo per raccontare quell’esperienza, quella dissonanza di non appartenere mai del tutto a un luogo, ma sentirsi parte di tutti i luoghi allo stesso tempo.
Qual è il tuo processo creativo quando ti viene affidata una serie già esistente come Justice League Dark o Swamp Thing? Parti dai personaggi o dai temi?
No, penso che la prima domanda che mi pongo sia: perché dovrei interessarmi a queste persone? Dimentica che è una serie esistente, dimentica che ha già dei lettori. Tutto questo non ha importanza se io, per primo, non mi sento coinvolto dai personaggi.
Quindi cerco sempre una ragione profondamente umana, intima, per cui dovremmo preoccuparci di ciò che accade loro. Una volta trovata quella storia di fondo, allora inizio a pensare alla trama più ampia. La storia principale — gli eventi spettacolari da supereroi — vengono dopo. Ma la base è sempre: perché dovrebbe importarci?
Justice League Dark è una serie che permette di esplorare l’irrazionale, il simbolico, il misterioso. Cosa ti ha attratto di più di questo angolo magico dell’universo DC?
In realtà non è solo l’universo DC. In generale, sono affascinato dalla magia nella narrativa, per diversi motivi. Primo fra tutti, sono cresciuto in una cultura dove le linee tra religione, magia e vita quotidiana sono molto sfumate. I miei nonni erano molto religiosi. Mia nonna era una sorta di guaritrice per la comunità. Quindi quando ho letto i fumetti Vertigo, che hanno influenzato molto il lato magico della DC, mi è sembrato tutto familiare.
Da dove vengo io, puoi fare qualcosa di banale come andare all’ufficio postale, ma poi qualcuno ti racconta: “Se svolti a sinistra lì, c’è un albero, e sotto quell’albero c’è una cavità. Se entri nella cavità al momento giusto, in un giorno particolare, potresti ritrovarti in un altro mondo.” Quella meraviglia mi ha sempre affascinato.
Quando poi unisci questo ai supereroi DC, ottieni una forma unica di energia narrativa. Le storie di supereroi, per me, di solito si dividono in due categorie: o ci sono persone con poteri che si picchiano, che è la versione meno interessante, oppure sono decostruzioni dell’eroe per riflettere sull’umanità, ma questo lo abbiamo già fatto tantissime volte. Sono stanco di decostruire i supereroi.
L’angolo magico, invece, decostruisce la realtà stessa ci chiede come ci rapportiamo al mondo che ci circonda. Non è che i personaggi siano più grandi della vita, è che la realtà è più grande di quanto possiamo comprendere. E questo lo trovo estremamente affascinante da scrivere.
Penso anche che una buona narrazione consista, a volte, nel creare connessioni irrazionali tra le cose. Se scrivi tutto in modo troppo logico, il risultato è prevedibile, come un’equazione matematica. A volte bisogna concedersi di fare scelte inaspettate e questo, in sé, è un po’ come la magia. Una buona parte della mia run su Justice League Dark era proprio giocare con l’idea che stavo scrivendo una storia sulla magia. C’è anche un momento in cui John Constantine scrive letteralmente il copione del fumetto in cui appare!
Ma questo legame con l’esoterico lo troviamo anche in Swamp Thing e Detective Comics.
Sì, e mi sono anche appassionato molto al realismo magico. Anche fuori dal mondo dei supereroi, come in Le Molte Morti di Laila Starr o Rare Flavours, cerco di includere elementi di realismo magico. Questo mi permette di affrontare temi molto profondi senza necessariamente restare ancorato al realismo letterale.
Quanta ricerca c’è dietro su questi argomenti per le storie che scrivi?
Non molta. Sono una persona molto curiosa per natura, quindi la mia “ricerca” avviene quasi sempre per caso. Di solito, quando inizio a scrivere una storia, è perché ho già fatto ricerche in modo spontaneo, per puro interesse, e ho accumulato abbastanza informazioni perché il mio cervello riconosca in esse una storia. Quando sto scrivendo o sceneggiando, faccio solo la ricerca strettamente necessaria per essere preciso con i fatti. Per il resto, le storie nascono da una curiosità già presente in me.
Zatanna e Constantine sono il cuore emotivo del team nella tua Justice League Dark. Come hai lavorato sul loro rapporto?
L’ho affrontata come affronterei qualsiasi relazione umana reale: ci si ama nonostante tutto, nonostante le stranezze, le eccentricità, le cose che ci portano a fare sciocchezze.
Il punto vulnerabile di Zatanna è che tutto ciò che fa, in qualche modo, è legato al padre, un uomo che si è sacrificato per lei. E ora il suo successo come maga le ricorda solo ciò che ha perso. È una persona tormentata, ma anche meravigliosa e eroica per questo. E al tempo stesso, ferita.
Poi c’è John, un personaggio complesso, ma che ha una convinzione profonda: prima o poi deluderà chi gli sta accanto. È difficile avere una relazione con qualcuno che non si ama. La maggior parte delle persone, in fondo, si vogliono un po’ di bene. Ma John… io direi che è quasi un masochista, si punisce da solo.
Quindi hai una persona con un bisogno quasi patologico di salvare gli altri, e un’altra convinta di essere irrimediabilmente persa. Questo, per me, è il cuore emotivo del loro rapporto.
Hai introdotto e approfondito figure come Merlin e la storia dimenticata della magia. Quanto è importante per te scavare nella “preistoria” delle cose per dare senso al presente?
Credo che sia proprio questo il compito delle storie, no?
Se ignori tutto ciò che è venuto prima, allora una storia toccherà solo la punta dell’iceberg. Ma il racconto, soprattutto nei fumetti, e in particolare in quelli seriali, deve confrontarsi con l’intero iceberg che lo precede. Ed è proprio questo che mi dà gioia. L’ho fatto non solo in Justice League Dark, ma anche su Batman, con i New Gods, e su Swamp Thing.
Mi piace che i fumetti, e le storie in generale, abbiano così tanta storia, e credo che debbano confrontarsi con il peso di tutto questo passato. Voglio dire, che tipo di mago sei se non ti sei mai confrontato con Merlino? Come puoi essere il più grande mago dell’universo DC se non hai mai combattuto contro Merlino?
Quindi sì, mi piace molto l’idea che tutto sia accaduto. Non scelgo la continuity che mi fa comodo: il mio approccio è che tutto conta, e quindi tutto è valido.
In Notturno di Gotham (su Detective Comics) introduci nuovi antagonisti e mitologie – come i Gael e la famiglia Orgham – personaggi affascinanti e intrisi di mistero. Quanto ti sei divertito a costruire una sorta di “storia segreta” di Gotham City?
Per me, Gotham è come una realtà quantistica, una sovrapposizione di tante versioni diverse, tutte stratificate una sull’altra, non una forma unica e vera. E questo significa che c’è sempre un’altra storia segreta, sempre un’altra versione di Gotham che non conoscevamo.
A livello meta, è proprio questo che voglio fare su Gotham e su Batman: non dovremmo essere scoraggiati dal fatto che Gotham ha così tanti segreti; è così che funzionano le città reali. Le grandi città del mondo, i luoghi storici, che si trovino in Italia, in Francia, nel Regno Unito o in India, sono tutti costruiti sopra le versioni precedenti di se stessi. Se scavi nella storia di questi luoghi, trovi un milione di segreti, un milione di motivi per cui le cose sono andate come sono andate.
Le città sono immortali, in un certo senso, perché portano con sé tutta la loro storia nel tempo, che i loro abitanti ne siano consapevoli o meno. E non è forse questo il modo migliore per descrivere Batman? Batman non è solo Bruce Wayne: è la sovrapposizione di tutti i vigilanti che sono esistiti prima di lui a Gotham. Ecco perché il mito di Batman è immortale, anche se Bruce Wayne non lo è.
La tua versione di Batman è molto gotica, e la Gotham che descrivi sembra più europea che americana. Come si rapporta questo con l’altro titolo di Batman attualmente scritto da Chip Zdarsky? È stata una tua idea o una scelta editoriale?
In realtà, ho iniziato a lavorare su Detective Comics poco prima che Chip arrivasse su Batman. Quando ho presentato la mia idea, mi hanno chiesto: “Qual è la tua visione?” E io ho risposto: “Voglio scrivere Batman come se fosse un’opera lirica.”
Solo con quella frase era già chiaro che Detective Comics avrebbe avuto un’estetica molto più europea. A quel punto, l’editor mi ha dato una scelta: “Chip sta per iniziare la sua run su Batman. Vuoi collegarti alla sua storia o vuoi fare qualcosa di tuo?” Erano entrambe opzioni possibili.
Il mio ragionamento è stato molto pratico: perché avere due testate che raccontano la stessa storia? Sono entrambe su Batman, quindi perché dovrebbero sembrare simili? Se Chip avesse, come è stato, fatto un grande racconto d’azione, con elementi alla Morrison, tra fantascienza e tecnologia, io volevo andare nella direzione opposta. Io volevo i violini, i tendoni rossi, le ombre che cadono sulle vetrate colorate—quel tipo di Batman.
Sono anche un grande fan dei film di Batman di Tim Burton, e ho sempre pensato che quell’estetica non fosse mai stata davvero esplorata dopo quei film, se non forse da Kelley Jones con il suo Batman Vampiro. Quindi sì, sentivo che era un’estetica con cui potevo fare qualcosa di significativo.
E, per essere onesto, mi annoio se un progetto non ha qualcosa di unico. Ogni volta che affronto una nuova serie, deve offrirmi qualcosa di diverso. Non avevo mai scritto una storia che fosse una sorta di opera gotica, melodrammatica, esagerata—quindi è quella la direzione che ho scelto.
Da lettore, ti vedrei benissimo in coppia con Kelly Jones.
Be’, Kelley Jones è un artista perfetto per molti scrittori e il suo lavoro è incredibile. Ho avuto il piacere di parlare con lui in un altro podcast, tempo fa. Ha realizzato diverse cover per le mie storie. Assolutamente un artista fantastico.
Magari in futuro potrebbe capitare un progetto insieme a lui..
Coglierei al volo l’occasione!
Che rapporto hai con le aspettative del fandom quando scrivi per un personaggio come Batman, e quanto ti sei sentito libero di sperimentare su un titolo storico come Detective Comics?
Senza offesa per i fan, ma quando scrivo il resto del mondo smette di esistere. Scrivo semplicemente perché amo farlo. Non mi chiedo: “Ai fan piacerà?” o “Cosa penseranno i lettori?”.
Ci provo, certo, ma non viene da un senso di vanità, viene da un senso di rispetto. Credo che se una cosa piace a me, sicuramente piacerà anche ad altri.
Non è una posizione tipo “sono un artista e non ascolto il parere di nessuno”, è più un atto di umiltà.
Credo che l’arte, a un livello fondamentale, sia espressione. E non puoi testare sul mercato l’espressione artistica. Ti esprimi perché ne senti il bisogno.
È così che affronto ogni tipo di narrazione, che si tratti di storie originali o di lavori per DC o Marvel.
E immagino che continuino ad affidarmi questi personaggi perché apprezzano il mio modo di esprimermi. Quindi no, non penso molto alla reazione dei fan, ma penso, egoisticamente, a quanto mi entusiasma scrivere una storia.
Parlando di Batman, non possiamo non citare le tue storie su Catwoman. Che approccio hai avuto su un personaggio come quello di Selina Kyle, sempre in bilico tra il bene e il male?
Quel tipo di personaggio è il mio preferito in assoluto da scrivere.
Adoro i personaggi che non sono né buoni né cattivi; persone buone che fanno cose orribili, o persone terribili che a volte fanno cose buone.
Mi affascina questa tipologia, e non solo nei fumetti. Lo adoro anche nel cinema, nelle serie TV, nel fantasy.
Prendiamo Game of Thrones, ad esempio: Jaime Lannister, Ditocorto, Tyrion sono i miei personaggi preferiti.
Tyrion in particolare: un personaggio moralmente ambiguo, iper-intelligente, apparentemente marginale, che finisce per guidare l’intera trama.
Questa è stata una delle cose che più mi ha divertito nello scrivere Selina. Non ho mai sentito il bisogno di renderla una “brava persona”.
Ma c’è differenza tra essere una brava persona ed essere una persona con dei principi.
E credo che Selina Kyle abbia dei principi molto forti, anche se i suoi principi dicono che puoi infrangere ogni regola, finché sei convinto di fare la cosa giusta. È un personaggio molto stimolante da scrivere.
Dal punto di vista estetico, il mio approccio è stato quello di raccontare Catwoman come una storia alla Ocean’s Eleven.
Non so quanti lettori l’abbiano notato, ma praticamente ogni numero era un colpo, stava sempre rubando o contrabbandando qualcosa.
Era il mio modo di portare quell’energia veloce, frizzante, da jazz, in stile Steven Soderbergh, nei fumetti.
Passiamo a Venom: tu e Al Ewing prendete in mano la serie dopo il fortunato ciclo di Donny Cates. La vostra run è stata particolare: avete imbastito una trama dove tu narravi le avventure di Dylan Brock e Al quelle di Eddie, come due differenti serie, ma intrecciate. Essendo voi in due e avendo due Venom a disposizione, avete capito che era il modo migliore per raccontare la vostra storia?
Ho accettato il progetto proprio perché mi era stato proposto come una co-scrittura con Al Ewing, ed è stata quella la cosa che mi ha attratto fin dall’inizio.
Avevamo piani ambiziosi: volevamo una struttura narrativa circolare, quasi come un serpente che si morde la coda. C’erano grandi archi narrativi pensati per i villain, per Dylan, per Eddie. A un certo punto volevamo anche reintrodurre Carnage e Cletus Kasady.
Ma poi, nella pratica, scrivere quel fumetto con cadenza mensile, con due autori coinvolti anche in altri progetti, è diventato rapidamente insostenibile. In più, io sono abituato ad avere controllo sull’estetica del libro: non solo sulla sceneggiatura, ma anche sui colori, sullo stile, sul tono. E questa non è una cosa che normalmente accade in Marvel.
In DC, invece, ho avuto la possibilità di scegliere gli artisti, proporre copertine, hanno persino cambiato il logo di Detective Comics per adattarlo all’estetica di Nocturne.
Con Venom, invece, sembrava ci fossero tre estetiche in conflitto: quella di Al, la mia, e quella dell’editor. Alla fine è diventato un progetto troppo complesso, e onestamente più un peso che una soddisfazione creativa.
Hai dato tridimensionalità al personaggio di Dylan partendo dal difficile rapporto padre/figlio e facendolo evolvere nel corso della storia. In Venom mi pare di capire che ti sia piaciuto molto occuparti di Dylan.
Sì, molto. E stranamente, il rapporto padre-figlio è un tema che continua a emergere nei miei fumetti, anche quando non me ne accorgo.
Quello di Dylan è stato il caso più esplicito. Ci sono stati momenti in cui ho davvero sentito di scavare a fondo in un personaggio nuovo e poco conosciuto, ma con grande potenziale.
Oltre a Venom, hai scritto anche la serie su Carnage. Venom l’hai pensato come un action thriller, mentre Carnage è molto più horror e introspettivo. Cosa ti ha attratto verso questa visione più oscura e diversa di Carnage?
Una delle direttive editoriali iniziali era: fate Carnage senza Cletus Kasady. Questa idea mi ha subito affascinato. E se fosse stato proprio Cletus a frenare il simbionte?
Se Carnage, il simbionte stesso intendo, fosse una creatura che desidera solo distruzione, senza alcuna motivazione umana?
Questo concetto, di una creatura totalmente aliena che vuole solo più caos e sangue, era perfetto per un racconto horror. E la serie non si è limitata a un solo genere. Inizia come noir investigativo, diventa fantasy, poi quasi cosmica. A un certo punto salviamo persino Loki da Hel!
È una storia su un’intelligenza davvero aliena che non vuole vendetta, non vuole essere un serial killer. Vuole solo distruggere.
Parliamo ora dei tuoi lavori più personale: Blue in Green (Image) e The Many Deaths of Laila Starr (BOOM!). Quanto è importante per te avere uno spazio creativo totalmente tuo?
Io ho iniziato nei comics con progetti creator-owned, e fin da subito ho sempre avuto almeno una serie indipendente in lavorazione.
Per me è come respirare: ho bisogno di uno spazio in cui non sto scrivendo per un fandom preesistente, ma creo qualcosa da zero.
È essenziale per la mia salute creativa, e penso che continuerò a lavorare in quell’ambito anche in futuro.
The Many Deaths of Laila Starr ha toccato temi universali come la vita e la morte in una cornice profondamente culturale. Che ruolo ha la tua identità e il tuo background indiano nella tua scrittura?
È una delle prime domande che mi sono posto: se sto scrivendo sulla morte nei fumetti, cosa posso dire che non sia già stato detto da Neil Gaiman in Death, o da Daytripper?
Poi mi sono reso conto—sembra ovvio adesso—che la morte è percepita in modo molto diverso da cultura a cultura.
In India, abbiamo l’idea della reincarnazione, dei cicli della vita. La morte è una transizione, non una fine.
Questa visione non era ancora stata esplorata nei fumetti, e ho capito che avevo qualcosa di nuovo e interessante da dire.
The One Hand è un noir ambientato in un futuro decadente, ma sembra riflettere paure molto contemporanee legate al controllo, alla tecnologia e all’identità. Cosa volevi esplorare attraverso il detective Ari Nassar?
The One Hand è uno dei due volumi gemelli, insieme a The Six Fingers [in Italia portati da saldaPress n.d.r.].
Il cuore del racconto non è solo negli occhi di Ari Nassar, ma anche nell’altro protagonista. L’idea centrale era quella dello “scopo esistenziale”.
Oggi si parla molto di intelligenza artificiale, di automazione, e già ora vediamo persone che “creano arte” scrivendo frasi in una casella.
Ma cosa succede se togli alle persone il senso dello scopo? Se gli dici: siete liberi, fate quello che volete, a noi non importa? L’utopia dice che ci evolveremo. Ma se invece ci spegnessimo lentamente?
Senza fare troppi spoiler, anche se questo lo è un po’, The One Hand e The Six Fingers sono ambientati in quello che è essenzialmente uno zoo. Uno zoo per persone che hanno bisogno di uno scopo.
Non so se questo risponde davvero alla domanda, perché se fossi in grado di articolare esattamente cosa stavo cercando di esplorare, allora non sentirei il bisogno di scrivere una storia, capite?
Passiamo a New Gods: stai scrivendo la serie All In dei Nuovi Dei creati da un Dio del fumetto come Jack Kirby. Quanta responsabilità hai sentito quando ti è stato affidato il progetto e cosa ti affascina di più dei personaggi di Quarto Mondo che, a mio parere, non sono così facili da raccontare?
Guarda, se avessi voluto essere responsabile, non farei fumetti! Quindi no, non ho sentito nessuna responsabilità, perché non è così che funziona la narrazione. Non scrivi una storia per essere riverente verso ciò che è venuto prima. Scrivi perché hai qualcosa di affascinante e gioioso da dire. Certo, stai aggiungendo qualcosa a una mitologia preesistente, quindi l’unica responsabilità è quella di fare qualcosa che ti entusiasmi, portare nella storia il motivo per cui quei personaggi ti hanno affascinato fin dall’inizio.
Nel mio caso, non sono cresciuto con i fumetti americani, quindi ho letto il Quarto Mondo solo verso i vent’anni. A quel punto avevo già letto abbastanza Alan Moore da capire quanto fosse un autore straordinario, e avevo scoperto che lui stesso si era avvicinato ai fumetti proprio per la fascinazione verso il lavoro di Kirby. Così ho preso l’omnibus del Quarto Mondo e l’ho divorato.
È stato come scoprire un tesoro creativo. Kirby non filtrava nulla: se aveva 15 idee, le metteva tutte sulla stessa pagina. E poi altre 15 nella successiva. Alcune esistono solo in un singolo pannello, ma ognuna di esse potrebbe essere sviluppata in una storia a sé. Era il terreno più fertile che avessi mai visto. Così ho iniziato a piantare semi. E da lì è nata questa storia.
Quindi la serie dei New Gods è il tuo progetto più ambizioso?
No, non la vedo in termini di ambizione. Sono ambizioso come scrittore, ma non nel senso comparativo. Anche una storia breve di una pagina può essere ambiziosa quanto una run di 60 numeri. Ogni storia richiede qualcosa di diverso, e io cerco di dare sempre il massimo.
Ho letto i primi due numeri della tua serie, e mi sono piaciuti moltissimo. Ma dobbiamo dirlo: [SPOILER] Darkseid è morto, emerge una profezia su un bambino che può salvare o condannare l’universo, e Mr. Miracle deve proteggerlo.. C’è un po’ di Terminator in questa storia.. (stiamo scherzando, ovviamente!)
[ride] Sì, è un tema molto usato quello del prescelto. Ma in realtà, la trama dei New Gods è ispirata alla mitologia indiana. Proprio come nella mitologia norrena esiste il Ragnarok, anche in quella indiana esiste un’idea della fine del mondo, legata alla nascita di un bambino che può portare salvezza o distruzione.
Senza entrare nei dettagli per non spoilerare, quel mito ha spunti davvero affascinanti. E io volevo prendere ciò che Kirby aveva costruito, attingendo da mitologie di tutto il mondo, e dire: “Ok, abbiamo visto il Ragnarok mille volte, ma non questa versione della fine del mondo.” Così ho provato a trasporre quella visione nella sua mitologia.
Anche in New Gods ci sono diversi elementi che ritroviamo nelle tue migliori opere: dei imperfetti o fallibili, umanizzazione di divinità come Orion, Mister Miracle, l’Alto Padre.. E’ questo il modo più naturale che ti porta a raccontare una storia con protagonisti personaggi immortali e divinità?
Sì. Tutto nasce da una riflessione fondamentale sul senso delle storie. Non raccontiamo storie per parlare di dèi o alieni, ma per parlare di noi stessi. Anche quando non ci sono esseri umani in una storia, si parla comunque della condizione umana.
Anche nella mitologia, gli dèi non sono ideali. Non è che uno debba emulare Zeus che era, scusate la parola, uno stronzo. E lo stesso vale per molti dèi indiani: ci sono storie in cui si comportano in modo infantile o addirittura crudele. Una delle mie preferite racconta di un dio che decapita il figlio per disobbedienza, poi si pente e sostituisce la testa con quella di un elefante—così nasce il dio Ganesha.
Trovo molto più affascinanti queste rappresentazioni imperfette, emotive, rispetto agli ideali sterili. Ma non puoi reinterpretare liberamente la mitologia religiosa senza urtare la sensibilità di qualcuno. I fumetti, invece, sono mitologia contemporanea. Il Quarto Mondo è perfetto per questo tipo di esplorazione. E quindi è quello che ho fatto: ho trattato gli dèi come versioni estreme degli esseri umani.
Hai detto di essere un fan della Vertigo, poco sopra. In New Gods ma anche in Immortal Man [nuovo progetto DC Comics n.d.r.], si notano alcune rappresentazioni visive complesse e oniriche che richiamano alcune opere della linea più matura della DC. Cerchi di trasmettere la tua visione all’artista nella realizzazione di queste tavole o gli lasci spazio?
Beh, so disegnare un po’ anch’io, non come i miei collaboratori, ma abbastanza da sapere come dovrebbe apparire una scena quando ho in mente qualcosa di preciso. In quei casi, piuttosto che scrivere un trattato nella sceneggiatura, li chiamo o mando una mail. Con Evan [Cagle] o Anand [Radhakrishnan] in Immortal Men, o Mike Perkins in Swamp Thing, si è creato un ritmo di lavoro condiviso. Non è “lo scrittore manda, l’artista disegna”. Fare fumetti è come suonare in una band. Devi suonare insieme. Non puoi semplicemente mandare una traccia e aspettarti che tutto funzioni.
Quali progetti vedranno impegnato Ram V prossimamente oltre quelli di cui abbiamo parlato?
Tra quelli già annunciati c’è Through Red Windows, con Joëlle Jones, in uscita a breve. È simile a Blue in Green—un racconto horror molto umano e intenso, e mi mancava fare cose così. Poi ci sono altri progetti con DC non ancora annunciati. Ma, a dire la verità, sto cercando di fare meno.
Lavoro ininterrottamente dal 2018, e come tanti, ho lavorato a ritmi folli durante gli anni del COVID. Ora ho un figlio di tre anni e mezzo, e lavoro anche per la TV, il cinema e i videogiochi. Sto imparando a gestire meglio il carico. Il mio obiettivo è rallentare un po’. Non ho troppi progetti in arrivo.
Speriamo che la pausa sia breve!
Sì, non sarà lunga. Amo troppo i fumetti per starne lontano.
Grazie mille a Ram V per il suo tempo.
Grazie a voi. Alla prossima!
Ram V
Conosciuto professionalmente come Ram V, è uno sceneggiatore e artista di fumetti indiano che ha lavorato per case editrici indipendenti, DC Comics e Marvel Comics. Nel 2025 ha vinto un Eisner Award come Miglior Graphic Album — Ristampa per The One Hand and The Six Fingers ed è stato nominato anche ai Premi Harvey e ai Premi Ringo.