Il Frankenstein di Guillermo del Toro, dopo una lunga gestazione, è pronto a sbarcare a Venezia durante il festival del cinema, il prossimo 30 agosto.
Una storia, quella immaginata da Mary Shelley, che il regista premio Oscar sogna di poter raccontare fin dall’infanzia; un’iconografia talmente amata da contaminarne la filmografia; un film progettato oltre vent’anni fa – all’epoca con Universal – e mai andato avanti; un incubo che finalmente prende forma.
A raccontarlo a Variety, in un’intervista di cui vi riportiamo qualche estratto, sono i due protagonisti: Oscar Isaac, che interpreterà il dottor Victor Frankenstein, e Jacob Elordi, nei panni della sua creatura, fatta di cadaveri rappezzati.
Estenuanti sessioni di trucco, un lavoro immane sulla psicologia dei personaggi e una scommessa con il pubblico: il nuovo Frankenstein di del Toro è tutto questo.
Oscar Isaac e Jacob Elordi parlano di Frankenstein
Più un artista che uno scienziato: è così che Isaac descrive il proprio Victor Frankenstein nell’intervista che trovate sopra, tanto da “dargli” una camminata molto rock, rubata a Prince dalle prove per il Super Bowl del 2007. Del Toro, dal canto suo, gridava:
«Dammi più Mick Jagger!»
Isaac è stato la prima scelta per quel ruolo fin dall’inizio, prim’ancora che ci fosse una sceneggiatura.
«Quando ne ho parlato con Guillermo la prima volta, mi ha detto che avrebbe creato qualcosa che fosse una gioia per gli occhi. E lo ha fatto.»
Un anno dopo, i due erano in una stanza di hotel per una lettura delle prime 30 pagine di copione. Isaac ricorda:
«Facevo io tutte le voci e, quando siamo arrivati alla fine, eravamo in lacrime. C’è così tanto dolore là dentro.»
Dolore, disperazione, solitudine, perdita; un’aura mortifera che avvolge Frankenstein e la sua Creatura come una maledizione da cui non è possibile fuggire – chi ha letto il romanzo di Shelley, sa.
E se un lato di questa medaglia è affidato agli occhi folli e al volto scavato di Isaac, come lo abbiamo intravisto nel trailer, l’altro appartiene a Jacob Elordi, in quello che ha definito come il ruolo più impegnativo della sua carriera.
Alle volte arrivava alla roulotte del trucco alle 22, così da essere pronto per la chiamata del mattino; nonostante una fisicità già imponente di suo, sono state aggiunte protesi, trucco, costumi, per renderlo ancora più enorme e spaventoso, e questo richiedeva molte ore di preparazione ogni giorno.
«Quando fai un film del genere, al tempo non pensi. Ho smesso di portare l’orologio, aspettavo semplicemente che arrivasse il SUV, era quello a indicarmi che era il momento di andare. Non facevo colazione, pranzo e cena, né pensavo in termini di mattino, pomeriggio e sera. È successo solo una volta.»
Eppure, non è la fisicità che gli ha fatto guadagnare il ruolo. Sono stati gli occhi.
«Gli occhi di Jacob sono così pieni di umanità… L’ho scelto per i suoi occhi.»
dichiara del Toro, intenzionato a portare in scena la storia di una creatura innocente, affascinata dal mondo intorno a lui, che però lo tortura, ne abusa, lo ferisce, lo maltratta, fino a renderlo esausto e vendicativo. È quella la vera essenza di quello che tutti chiamano “mostro”.
In questo adattamento, infatti, l’attenzione è sull’umanità o sulla mancanza di essa; è un film che ci porterà a vedere che siamo noi i veri mostri – nel caso in cui non ce ne fossimo ancora accorti.
Un aspetto già presente nel testo di Mary Shelley, spesso trascurato per dare spazio al discorso sulla scienza, sul giocare a fare Dio; qui, quell’elemento cruciale di solito ignorato viene compreso, raccolto e amplificato:
«Generalmente, il discorso che si fa con Frankenstein è quello della scienza che sfugge di mano. Per me, invece, ha a che vedere con lo spirito umano. Non è una storia di ammonimento: parla di perdono, comprensione, e dell’importanza di ascoltarsi a vicenda.»
Del Toro sembra centrare appieno lo spirito di Shelley, che in questa storia riversò anche le proprie problematiche relative alla genitorialità, altro elemento che il regista non manca di includere: il suo Victor è il prodotto di una madre molto affettuosa, che muore giovane e lo lascia – emotivamente spaesato – con un padre dominante e freddo (Charles Dance).
Non a caso, l’attrice che interpreta la madre di Victor Frankenstein è Mia Goth, la stessa che interpreta Elizabeth, il suo interesse amoroso, nel tentativo di portare sullo schermo un complesso di Edipo mai risolto, che alcuni critici hanno riconosciuto anche nel romanzo originario.
«[La storia] è narrata attraverso la lente di un punto di vista intensamente latinoamericano. È una storia decisamente europea raccontata con un approccio molto poco europeo.
C’è stato un momento in cui guardavo i monitor, e c’era questo castello a Edimburgo e tutta questa sontuosità: ho chiesto “è troppo?”.
E Guillermo mi fa [mimando un marcato accento spagnolo, ndr] ‘Cabrón, c’è un motivo per cui il mio Victor è interpretato da Óscar Isaac Hernández!” »
Per stessa ammissione del regista, la sua ispirazione infatti non proviene solo dal gotico, ma anche dalle telenovelas spagnole e sudamericane.
Solo un progetto così mastodontico – la parte di scenografia, trucco e costumi vale già da sola svariati premi, a quanto abbiamo visto – poteva giustificare un budget di 120 milioni di dollari, che Netflix punta a recuperare con tre settimane in sala prima, e la disponibilità in streaming poi.
In sala, Frankenstein sarà presente solo per 3 settimane, a partire dal 17 Ottobre; dal 7 novembre sarà disponibile anche sulla piattaforma, e già si parla di Oscar (non Isaac, in questo caso).
«Mi spezza il cuore che film del genere non abbiano una distribuzione completa nei cinema» ha dichiarato Elordi. «La mia speranza più grande è che si riescano a tenere film così in sala il più a lungo possibile. E così, magari, quello segnerà un precedente per altre pellicole là fuori.»
Questa è anche la nostra speranza: che si torni a riempire le sale, sognando, soffrendo, provando emozioni con grandi personaggi e grandi storie. Come quella infelice del Dottor Frankenstein e della sua Creatura.
Fonte: Variety