Vanna Vinci: «Il fumetto? Si crea nella tua testa un’ossessione, che diventa storia»

A Lucca Comics & Games 2025 abbiamo incontrato e intervistato Vanna Vinci, Signora del fumetto italiano, che ripropone il suo Gatti neri Cani bianchi in una nuova edizione per Sergio Bonelli Editore. Godetevi il viaggio insieme a noi.

Claire Bender
copertina intervista vanna vinci
Vanna Vinci, foto di Sandra Sisofo

Vanna Vinci è da molti considerata la Signora del fumetto italiano, e a ben vedere: ha esordito nel 1990 su Fumo di China, per poi contribuire alla nascita di Mondo Naif, rivista-manifesto della nouvelle vague di autori del circolo bolognese degli anni ’90.

Le sue opere sono state pubblicate in vari Paesi europei e uno dei suoi personaggi più noti, la bambina filosofica, è diventata un gigantesco e irriverente murales a Bruxelles. Nel 2024 arriva il Romics d’oro alla carriera, premio che segue una lunga e onorata scia: il Premio Yellow Kid nel 1999 e il Gran Guinigi come miglior disegnatore nel 2005.

L’abbiamo incontrata a Lucca Comics & Games 2025 per una piacevolissima chiacchierata al riparo dalla pioggia battente, un viaggio emozionante tra amori: quello per la “malattia mentale” che è il fumetto, e l’altro per il segno, anima originaria del fumetto. Vanna è generosa con la sua arte e la sua ossessione, e la passione che scorre in lei è contagiosa: non finirò mai di ringraziarla per questo.


Intervista a Vanna Vinci

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Autoritratto di Vanna Vinci

Ciao Vanna, grazie di essere qui con noi, nonostante la stanchezza e la pioggia lucchese. La prima domanda che volevo farti riguarda te e il tuo percorso come artista. Una delle cose su cui mi piace porre attenzione è il posto delle donne nell’arte, soprattutto in un Paese come il nostro. Tu quali difficoltà hai trovato? Noti un cambiamento nei confronti delle autrici? 

Guarda, quando ho iniziato io, le autrici di fumetti — ma anche le disegnatrici in generale — erano pochissime. Escludendo figure come Grazia Nidasio o Claire Bretécher, eravamo davvero in poche. Quindi iniziare era già di per sé avventuroso; ma proprio per questo, forse, c’era la spinta a provarci.

Io sono nata a Cagliari e ho avuto un’impostazione familiare ed educativa basata sui testi femministi degli anni ’70. Sin da ragazzina, mia mamma mi parlava dell’UDI e altre realtà, quindi avevo ben presente l’esistenza di discriminazioni; ma allo stesso tempo, c’era una forte spinta politica, sociale e personale verso l’affrancamento da certi stereotipi femminili, che per giunta a casa mia non si sono mai praticati.

Quando ho cominciato a lavorare, mi sono trovata davanti a un mondo del fumetto che conoscevo pochissimo, e che era completamente maschile. Arriva una ragazza con presupposti diversi, con direzioni diverse: sicuramente anche per loro era qualcosa di nuovo, forse complicato, strano. La creatività era presente, certo, ma era sempre una creatività maschile, soprattutto per quanto riguarda il grande fumetto popolare.

Ricordo ciò che mi disse Grazia Nidasio: “Troverai degli ostacoli, ma se vuoi continuare non ti curar di loro: guarda e passa”. E questo è quello che ho fatto. Entrando poi nel contenitore bolognese, con Granata Press, ho trovato un ambiente diverso. Luigi [Bernardi, fondatore della casa editrice, ndr] aveva pochissimi schemi mentali.

Vanna Vinci - Frida

Io avevo una matrice manga, cosa allora quasi mai vista e pure un po’ disprezzata, considerata roba da nerd. Per dire, a me piaceva Lady Oscar, ma dirlo significava non essere invitata da qualche parte, per capirci. Eppure ho potuto procedere a modo mio. Con il tempo, la situazione si è evoluta: oggi ci sono forse più autrici che autori. Penso persino che all’Accademia le iscritte siano in maggioranza, anche se non ho visto i numeri più recenti.

Oggi poi c’è anche un’ulteriore apertura verso generi e identità differenti, non binarie, un’apertura generale che porta molti più punti di vista. L’individuo può raccontare ciò che sente urgente: la tematica può essere l’istanza di quell’individuo, che può risuonare anche in chi non ha quella stessa esperienza.

Questo mi porta alla domanda successiva: l’urgenza di fare storie. Quando ti sei approcciata ai tuoi lavori, lo hai fatto per una spinta interiore? Cosa ti guida quando decidi “questa è la storia che voglio raccontare”?

Io dico una cosa che fa sempre ridere tutti, ma secondo me è vera: il fumetto è una malattia mentale. O ce l’hai o non ce l’hai, e parlo anche dei fruitori, non solo di chi lo fa. A un certo punto, si crea nella testa una sorta di ossessione, o più ossessioni, che diventa storia, o più storie.

Inoltre ha una qualità unica: basta pochissimo per costruire una storia. Uno spazio minimo, una scrivania, carta, matite, pennarelli, acquerelli, inchiostro; se usi un iPad, ancora meno. Questo lo rende un linguaggio accessibile, che puoi produrre da sola, in due o in tre, non come il cinema che, al contrario, è una macchina complicatissima.

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Tavola tratta da “Gatti Neri, Cani Bianchi”, Sergio Bonelli Editore

Certo, quando il fumetto diventa mestiere entra in gioco una complessità diversa, ma all’origine restano un foglio e una penna.

Esatto, ed è una forma di espressione vicinissima al racconto orale. Disegnare una vignetta significa pensare a tutto il mondo che contiene. C’è poi l’idea della sequenzialità: una narrazione per frame con un linguaggio inserito all’interno. E secondo me, paradossalmente, leggere bene un fumetto è più complesso che leggere un libro. Sul fumetto hai un doppio livello, a volte anche triplo. Io spesso rileggo un fumetto più volte: prima di getto, poi solo i testi, poi l’immagine. È una sovrapposizione di linguaggi. Alla prima lettura, magari c’è qualcosa che non hai percepito, e che magari non ha percepito neppure chi lo ha fatto [ridiamo, ndr].

Ecco, ti capita mai che trovino nelle tue opere qualcosa che tu non ci avevi messo?

Assolutamente! Capita spesso che qualcuno mi racconti qualcosa del mio lavoro che io non avevo visto. Parlare con altri — che sia per un articolo o per conversazione — crea una sorta di rimbalzo che ti mostra parti della tua opera, del tuo lavoro, del tuo universo, da punti di vista nuovi. D’altra parte, io quando sono immersa in una storia non penso alla componente esterna: percorro quella strada, poi magari, dopo, la analizzo.

Per fare questo però serve la capacità di mettere da parte l’ego, cosa non sempre facile e che non tutti sanno fare. La storia, una volta uscita, prende la sua strada: sarà letta, interpretata, trasformata.

Sì, non è più tua, a quel punto. Per quanto mi riguarda, il mio ego è già più che spazzolato nel momento in cui ho la libertà di fare quello che voglio. Se sono felice di quello che sto facendo e chi collabora con me lo trova valido – a volte anche quando è da rifare totalmente – il mio ego non ha bisogno di altro.

Riguardo il lavoro che riporti qui a Lucca in una nuova edizione Bonelli, Gatti neri Cani bianchi: come nasce? Da quale urgenza o ossessione?

Gatti neri Cani bianchi è una storia del 2009, nata da un incontro con la redazione di Dargaud Benelux. L’idea era di proseguire quello che era stato fatto su Mondo Naif con delle storie che esplorassero il quotidiano. Per quanto mi riguarda, è la chiusura di un piccolo universo iniziato con Aida al confine e Sofia.

La storia esplora la situazione di una giovane donna che si trova in quel punto tra adolescenza ed età adulta, e al tempo stesso tra un mondo reale e un mondo di fantasmi. La componente magica e visionaria è fortissima dentro una storia che, in sé, è totalmente quotidiana.

Non c’è la grande avventura, perché pur essendo un’amante del western e del poliziesco, non sono capace di farli. Qui non succede “nulla”, se non dentro il personaggio. Emergono cose interiori.

L’urgenza era raccontare questo: intanto, dal punto di vista della protagonista, la perdita di sé. Va a Parigi e si perde completamente – non solo fisicamente – e finisce per seguire personaggi che forse non dovrebbe seguire. Sono spiriti guida al contrario: è meglio non seguirli, soprattutto per una giovane donna in un mondo adulto complesso.

L’idea era parlare di un personaggio che si perde e altre personagge – perché sono tutte femmine – che si sono perse in modo diverso e hanno percezioni diverse della perdita di sé. È un tema universale, chiunque può ritrovarsi in un percorso del genere.

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Tavola tratta da “Gatti Neri, Cani Bianchi”, Sergio Bonelli Editore

A volte, forse, serve anche perdersi per potersi ritrovare, no?

Lo diceva anche Lynch in quel libro di interviste, Perdersi è meraviglioso. Quando ci si perde, i rischi sono sicuramente moltissimi, ma trovi cose che altrimenti non avresti trovato.

Nel caso specifico di Gatti c’è anche la questione della città, fondamentale per me. Le città per me diventano personaggi. Parigi, qui, è stratificata: ci sono situazioni normali e insieme irreali; vedi Beckett, che forse non è Beckett, non si sa se sia morto o meno; poi la città finisce dentro un’altra città, e così via. Ho immaginato una protagonista che viene dal sud e finisce in un ambiente freddo, dispersivo, ma soprattutto sconosciuto: sei senza punti di riferimento, e una delle probabilità principali è che tu ti perda.

Sul piano tecnico, in tanti anni hai sperimentato con materiali diversi. Ce n’è qualcuno che senti più tuo?

Guarda, per me i materiali sono tutti fantastici. Per questo lavoro, nello specifico, ho usato una carta satinata meravigliosa, che regge acquerelli, chine e persino correzioni con la lametta.

Il colore mi piace, ma lo patisco: lavorare a colori mi stanca molto. Il bianco e nero mi da meno stress visivo. Ricordo in passato, queste grandi tavole a colori, che dovevo mettere a terra per poterle guardare, perché dopo un po’ mi facevano male gli occhi.

Poi c’è il tema del rapporto con gli strumenti. Ho un’amica che negli anni ’80 ha lavorato con Tezuka: mi portò dei pennini giapponesi, i quattro tipi di pennini utilizzati per i manga, che ho usato per anni. Se non ci fosse stata Laura, al tempo, non avrei mai potuto averli; non era come oggi, che si può ordinare tutto online.

Sicuramente, gli strumenti cambiano il modo in cui lavori: per esempio, le penne a inchiostro giapponesi hanno un pennino molto più flessibile delle stilografiche occidentali; è un investimento economico importante, ma cambia tutto. Con quelle ho lavorato su Frida e Callas, per esempio.

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Una tavola di “Io sono Maria Callas”, Feltrinelli

Anche la penna Sailor che mi ha portato Laura, che ora usano in tanti, ha un pennino piegato che da un’inchiostrazione quasi da pennello. E così, inizi in un modo, e poi la penna ti porta da un’altra parte.

Stessa cosa col digitale: io ho iniziato a utilizzare l’iPad in modo selvaggio. Non so usare Photoshop, quindi ho cominciato come avrei fatto con la carta. Per esempio, in Parle-moi d’amour ci sono tracce a matita lasciate apposta, come se ci si fosse dimenticati di cancellare la traccia sotto l’acquerello. Il digitale offre possibilità infinite. E, soprattutto: niente più rotoli enormi da trasportare o spedire, col rischio che si perdano, rovinino, o altro.

In ogni caso, per me il segno è la cosa più emozionante. Apprezzo la pittura, ma il segno — nudo, diretto, incontestabile — è ciò che mi sconcerta e mi emoziona di più.

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Tavola tratta da “Gatti Neri, Cani Bianchi”, Sergio Bonelli Editore

C’è un’opera che hai amato tanto da desiderare di averla scritta o disegnata tu?

Onestamente no, perché se c’è qualcosa che mi piace tantissimo, non mi viene da pensare “avrei voluto farlo io”. Magari mi capita di dire “mi piacerebbe saperlo fare” con alcuni tratti, quello sì.

Mi succede con il segno di un amico, Paolo Bacilieri, che trovo bellissimo, ma anche con disegnatori molto classici: penso a Zaniboni, Gomez, che fanno cose che non saprei mai replicare. Sono segni ipnotici. È meraviglia, la mia, oltre alla stima.

Un autore che per me è il top, ed è l’opposto delle persone che ho appena citato, è Ronald Searle, che negli anni Sessanta disegnò un gruppo di bambine assassine con un segno molto sporco, macchiato. È l’opposto di Paolo, ad esempio, ma è comunque un punto d’arrivo, un “Mi piacerebbe arrivare lì”.

Nel fumetto, il segno è cruciale: dal più pulito al più sporco, è ciò che mi piace di più. [lo dice con gli occhi che le brillano, ndr]


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Le reminiscenze parigine di Vanna Vinci ritornano in libreria in questa nuova edizione Sergio Bonelli Editore del successo Gatti neri Cani bianchi.

Gilla se ne va dalla città mediterranea dove è nata e cresciuta, forse Cagliari dall’infanzia arcaica e sognante, alla ricerca di un cambiamento, nel momento del passaggio mai netto dall’adolescenza infinita all’età della presunta consapevolezza, ma lo fa senza la certezza di cosa cercare e cosa volere, piuttosto guidata da una necessità indefinita.

Con i modi di una quieta irrequietezza, Gilla si trasferisce a Parigi, pulsante come un corpo vivo e specchio del suo animo sull’orlo di una o tante soglie. Questa città fatta di stratificazioni, dove tutto sembra immerso in una sorta di liquido amniotico, sarà per lei popolata di incontri.

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Vive con un dodo immaginario e un Jack Russell reale, che di recente si è scoperto essere Sith. Grifondoro suo malgrado, non è mai guarita dagli anni '80. Accumula libri che non riesce a leggere, compra ancora i dvd e non guarda horror perché c'ha paura. MacGyver e Nonna Papera sono i suoi maestri di vita.
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