‘Lavorare senza mai alzare la testa’. Chi ha avuto modo di vedere lavorare a uno dei tanti Festival del Fumetto Elena Casagrande, non potrà che confermare quanto la stessa artista dice.
Concentrazione sul tavolo da lavoro, dove mette tanta professionalità e ‘olio di gomito’. Perché Elena, prima di tutto, è una grande lavoratrice e le incredibili tavole dei suoi fumetti, le commission e blank cover che realizza per i suoi fan e lettori ne sono la testimonianza. Oltre, ovviamente, i tanti riconoscimenti ottenuti, tra questi ‘solo’ l’Eisner Awards 2021 (l’equivalente dell’Oscar per il fumetto) con la sua Black Widow per la categoria Miglior nuova serie insieme a Kelly Thompson.
Elena ama raccontare il proprio lavoro e condividere l’impegno suo e dei colleghi nel valorizzare e sostenere i giovani talenti pronti a farsi strada nel mercato fumettistico italiano, e non solo
Insomma quella al Torino Comics 2025 con Elena è stata un’interessantissima e divertente chiacchierata dove, oltre a raccontarsi come artista, ci ha rivelato il suo lato più ‘nerd’ e il suo sogno nel cassetto (che per ora rimane lì, ma prima o poi verrà fuori).
Signori e signore, su MegaNerd uno dei talenti più importanti della Marvel: Elena Casagrande!
Intervista a Elena Casagrande
Ciao Elena e grazie per essere insieme a noi di MegaNerd! È un onore poter scambiare quattro chiacchiere con te.
Grazie a voi, ciao a tutti.
Fino ad ora una carriera costellata di premi vinti (Eisner) e riconoscimenti (Marvel Stormbrakers 2023). A un artista del tuo calibro solitamente viene domandato il suo primo contatto con il fumetto e con il disegno. Io invece ti voglio chiedere quando ti sei detta “Ok, posso fare la disegnatrice”?
In verità il disegno per me è sempre stato un atto naturale. Non ho mai però focalizzato il poterlo far diventare un lavoro fino a che non ho frequentato la scuola internazionale di fumetto.
La mia passione per il ‘disegnare fumetti’ è arrivata intorno alle scuole medie, che corrisponde a quando è arrivata Sailor Moon in Italia [nel lontano 1995 n.d.r.].
Se fino a lì avevo sempre letto Topolino, Il Giornalino, ecc.. con Sailor Moon mi sono fiondata nel mondo dei manga e, cominciando a leggere molto più corposamente, mi è venuto naturale anche ‘fare’ i fumetti.
All’inizio, ovviamente, erano tutte storie personali, molto banali, però rimaneva una cosa tra me e me. Finito il liceo il mio pensiero era ‘cosa volevo fare da grande’. Il mio pallino era di non mollare questa passione relativa al disegno ma, anche di concretizzare qualcosa che facesse contenti mamma e papà.
Quindi ho fatto, per sei mesi, sia la facoltà di lingue all’università che la scuola internazionale di comics a Roma dove però ho potuto vedere quanto, alla fine, quello del fumettista fosse un lavoro organizzato. E difatti dopo sei mesi ho deciso che questo era il lavoro che volevo fare.
Alla scuola di Comics di Roma hai conosciuto un altro grandissimo artista italiano, David Messina. Quanto è stato importante per te l’incontro con David per la tua carriera?
David è stato il mio insegnante al secondo anno. La materia principale che si affrontava era l’inchiostrazione e quindi, con lui ed un altro insegnante, Mario Rossi, ho fatto questa parte del processo produttivo, ma ho cominciato anche a conoscere come funzionava il mercato americano.
Al primo anno mi avevano detto che non potevo disegnare manga o con uno stile giapponese, perché all’epoca c’era ancora questo pensiero che il Giappone era un mercato chiuso. Non esisteva ancora l’Euro-manga.
Per intenderci, era il periodo delle W.I.T.C.H. [fumetto italiano del 2001 ideato da Elisabetta Gnone, Alessandro Barbucci e Barbara Canepa e prodotto da Disney Italia, n.d.r.] e tutto era ancora all’inizio.
Quindi ho dovuto cambiare e ho cominciato a ‘leggiucchiare’ qualcosa di americano ma, ovviamente, nell’ignoranza totale, perché non avevo amici o altri conoscenti che leggevano Supereroi o altro. Banalmente in fumetteria sceglievo in base al disegno che mi piaceva.
Invece David, che già lavorava per la IDW Publishing, ha saputo, innanzitutto, darmi suggerimenti un po’ più mirati in base ai miei gusti e mi ha fatto vedere come funzionava il lavoro per il mercato americano, che era diverso da quello italiano.
Sul finire dell’anno scolastico, lui [David Messina n.d.r.] mi ha dato l’opportunità di aiutarlo nelle consegne.
All’epoca il mio fu grande stupore, ma adesso, se ci penso, ammiro il suo coraggio [risata n.d.r.] per avermi affidato in quel momento le fasi layout a matita e ho cominciato a fare gavetta.
Con lui ho fatto un periodo in cui mi occupavo di layout, poi ho avuto un salto di carriera e ho cominciato a inchiostrare gli sfondi e, successivamente, ho fatto proprio da inchiostratrice per poco più di un annetto.
Ho avuto anche l’occasione di fare il mio primo numero da solista, che era un fill-in della serie che stava facendo lui, ovvero il terzo numero di una miniserie di 5 su Angel [fumetto tratto dalla serie TV del 1999, spin-off di Buffy l’ammazzavampiri n.d.r.].
Lui è stato quello che mi ha introdotto al mercato americano e dopo quel numero ho continuato un po’ sempre a far ‘bottega con lui’.
Però poi è nata l’occasione sempre in IDW di una nuova serie e lui mi ha detto “proponiti”. Così ho cominciato a fare carriera in America.
C’è stato, poi, il Chester Quest F.G.C.B. che non vinsi, ma che mi creò l’aggancio giusto e da là è nato tutto.
È stato un bel modo per iniziare, che, comunque, io stessa cerco di replicare con altri ragazzi, se ho l’occasione di lavorarci insieme. Anche se poi ho capito che è una prassi abbastanza abituale, cioè un modo come un altro di cominciare a fare questo mestiere.
Parli di introdurre i giovani al mestiere del disegnatore?
Si si, è proprio il concetto di “bottega”, che una volta si faceva proprio fisicamente insieme. Adesso col fatto che ci sono le distanze, c’è Internet, si fa anche da una città all’altra, mentre all’epoca, ad esempio, io non abitavo neanche a Roma, e con Davide ci si vedeva saltuariamente.
Poi abbiamo provato ad avere uno studio insieme, però comunque dovevo sempre andare a Roma. Adesso, invece, è proprio facile cercare, tra i ragazzi che escono dalle scuole, oppure spulciare Internet e vedere se c’è l’interesse, innanzitutto, di fare qualcosa del genere e poi se c’è la disponibilità di cominciare.
Hai lavorato su tanti fumetti tratti da serial televisivi come Doctor Who, Angel, Star Trek, ecc.. per un disegnatore che magari ha più interesse a dare il proprio imprinting su una serie e i suoi personaggi, hai trovato difficoltoso lavorare su comics che hanno determinati vincoli imposti dal format televisivo?
Allora io ho avuto la grande fortuna di essere fan praticamente di tutte le serie che ho disegnato! [risata n.d.r.]
Quella che ignoravo, nel senso che non conoscevo più di tanto, era Star Trek che è anche quella che ha un fandom molto più rigoroso.
Quindi là c’è stata la difficoltà più grande, nel senso che dovevo conoscerlo e mantenere una certa precisione e rigorosità.
Però in generale il fatto che io fossi parte del fandom di Angel, X-Files, True Blood, mi permetteva di vedere il punto di vista giusto dove poter mettere del mio, cioè trovare quell’appiglio dove potevo comunque esprimermi. E poi era anche una sfida.

Cioè per me era figo cercare di riprodurre su carta le atmosfere televisive e il fatto che mi piacesse la serie mi faceva percepire (forse meglio) come trasportare questa cosa sulle pagine.
Anche sul fatto di mantenere la somiglianza, posso dire che in base al progetto c’è una supervisione più o meno severa da parte degli attori sulla similarità. Per fortuna non ho mai avuto grosse correzioni, difficoltà, perché a me piaceva disegnare gli attori che seguivo, capito? Quindi è stata fortuna.
Hai mai avuto l’opportunità di conoscere qualcuno degli attori che hai disegnato nei fumetti IDW?
… No [detto con molto rammarico e tristezza, n.d.r.]. Allora, David Boreanaz [interprete di Angel nell’omonima serie TV e in Buffy n.d.r.] l’ho visto da lontano a San Diego. Quando feci qualche pagina del fumetto di Arrow e Flash di The CW, vidi anche loro [Stephen Amell/Arrow e Grant Gustin/Flash n.d.r.] da lontano al San Diego Comic-Con. Amell addirittura quando era all’inizio con la serie TV e quindi c’era ancora poco interesse e poca calca.
Di True Blood non ho visto nessuno, mentre il cast di X-Files l’ho visto ad un panel sempre a San Diego quando ci fu il rilancio della nuova stagione [la decima, uscita nel 2016, n.d.r.]. Lì feci proprio la fan e mi misi in fila per la sala alle 7 del mattino [risata n.d.r.].
Quello che mi manca ed è il mio pallino è David Tennant, che ho rischiato di beccare perché stavamo allo stesso New York Comic-Con, ma io non mi potevo alzare dal tavolo ed è sempre difficoltoso infilarsi durante questi eventi. Poi io non sono una che ne approfitta e mi sento in difficoltà, però, come penso sempre, “mai dire mai”!
Il mio traguardo più bello è stato sapere che David Tennant era a conoscenza che c’era un fumetto su di lui, che disegnavo io.
Nel tuo personalissimo stile di disegno adotti un layout molto cinematografico. Le scene d’azione sembrano tratte da veri e propri film. Quali sono le influenze principali, a livello di cinema, autori e qualsiasi altro media, che ti hanno portato ad affinare uno stile così riconoscibile come il tuo?
Inconsciamente mi sono accorta dopo che, comunque, avevo assimilato tanto dalle letture sia dell’infanzia che di quelle preadolescenziali e adolescenziali.
Tutta la questione dello storytelling, di come scandire il tempo sulle tavole, della potenzialità grafica del fumetto, a differenza di quella del cinema, l’avevo assorbita senza che effettivamente avessi mai fatto lezioni di storia o di grafica del fumetto.
E dall’altra, ho sempre divorato film anche se non ho mai fatto un’analisi critica di quelli che guardavo, quindi anche quello è stato proprio qualcosa che assorbivo e ho continuato ad assorbire.
Poi, sempre durante la scuola, comunque c’è stato un momento in cui ci servivamo dei fotogrammi di alcuni film per studiare determinate inquadrature come i tagli di luce o anche semplicemente la prospettiva, e quindi lì ho cominciato a capire che poteva essere anche quello uno strumento narrativo.
È sempre stato un ‘mischiume’ di tutte queste cose, che avveniva in maniera molto naturale, finché poi, crescendo, l’esperienza mi ha portato a scegliere consapevolmente in base al progetto su cui sto lavorando, i riferimenti da sfruttare.
Se per esempio sto facendo una storia più action, ho determinati riferimenti, se invece è più romantica, ne ho altri. Prima era più caotica la cosa, mentre adesso è più mirata.
Ovviamente ho anche i miei autori di riferimento che sono un’infinità. Pensate che a volte mi capita di dover cercare qualche reference che so di aver visto, ma non ricordo dove.
Questa cosa mi mette in crisi perché ho una pessima memoria con i nomi e quindi anche se mi dovessi andare a cercare a quel fumetto in libreria, mi ricordo la copertina ma non dove andarlo a cercare.
Ora vorrei chiederti qualcosa su Suicide Risk, serie Boom! Studios che hai realizzato con Mike Carey: è stato il progetto a fumetti dove sei stata più a lungo. Quanto lo reputi importante per quello che è venuto dopo nella tua carriera?
In quel momento arrivavo da un periodo che posso definire quasi di ‘magra’ perché stavo facendo, l’arco finale di Axlash dopo aver passato un anno di disoccupazione. Non sapevo cosa altro fare, in realtà non sapevo neanche cosa volevo fare.
Mi arrivò a questa proposta e Mike Carey fu l’ago della bilancia che mi fece interessare al progetto.
È stata l’esperienza che mi ha permesso di avere più spazio di creazione perché era un progetto creator owned e quindi ho dovuto fare io tutta la parte grafica ed è stata anche forse la prima esperienza di collaborazione sinergica perfetta grazie a Mike [Carey n.d.r.].

È inutile che dica che è bravissimo a scrivere, ma posso dire che è una persona molto aperta alle proposte, alle interpretazioni, molto disponibile e tollerante. E’ stato un progetto che mi ha permesso, oltre ad avere una cosa costante per tanto tempo, anche di divertirmi.
Anzi: forse è stato il primo progetto che veramente mi ha permesso di divertirmi tanto. Mi ha seminato nella testa quell’idea che, se qualcosa mi diverte, lavoro molto meglio.
Infatti anche in base ai progetti che sono venuti dopo, nonostante magari abbiano avuto più prestigio o risonanza, Suicide Risk lo ricordo sempre con estremo affetto.
La chiave di volta nella tua carriera arriva con Black Widow, maxiserie Marvel realizzata insieme a Kelly Thompson, con cui hai vinto l’ambito e prestigioso Eisner Award nel 2021. Da quel momento è cambiato qualcosa nel rapporto con gli altri autori e, soprattutto da parte tua, nei lavori successivi a cui hai preso parte, in particolare a livello di pressioni e aspettative, anche magari auto indotte, per mantenere, come si suol dire, ‘l’asticella alta’?
Il rapporto con gli altri autori da parte mia non é cambiato, perché, personalmente, ci ho messo tanto a realizzare quello che era successo.
Ho continuato a rapportarmi con gli altri esattamente come facevo prima, anche se percepivo di ricevere una considerazione diversa. Sono una persona che fatica a sedersi sugli allori, quindi ho sempre mantenuto i piedi per terra che, per me, rimane la cosa fondamentale e ‘pacchetto base’ per lavorare bene.
Da lì in poi speravo che il principale cambiamento riguardasse l’aver maggiore possibilità di poter scegliere su quali progetti lavorare.
Purtroppo le cose non sono andate come mi aspettavo e il contratto in esclusiva con la Marvel ha un po’ smorzato questa chance.
In passato avevo avuto altre proposte di esclusiva, che ho sempre rifiutato perché sono un tipo che si annoia facilmente. In pratica il pensiero di stare tanto tempo su un’unica tipologia di storia, l’ho sempre percepito come una sorta di ingabbiamento temendo che ciò potesse impedirmi di lavorare al meglio, senza parlare del timore che avrei potuto rimpiangere di non poter lavorare su progetti che invece mi piacevano.
E alla fine è successo un po’ questo: bisogna sempre rimanere professionali ed essendo molto esigente con me stessa, ripetendomi che l’asticella l’avevo messa a una certa altezza e non potevo più abbassarla, é stato un po’ stressante non riuscire a far coincidere le mie aspettative con la realtà.
Ma dopotutto sono consapevole di aver dato il massimo e quindi va bene così; anche questa é stata, comunque, un’esperienza da cui ho imparato qualcosa.
Tra i tuoi impegni recenti in Marvel c’è stato Blade realizzato insieme a Brian Hill, uno che di horror se ne intende eccome! Tu arrivavi da un passato sui fumetti legati al mondo di Buffy l’ammazzavampiri, Angel. Insomma…un connubio che pare fosse già scritto col sangue! Quanto ti ha aiutato la tua esperienza sulla testata IDW nella realizzazione della serie di Blade?
L’unico ricordo che avevo di Blade era il film con Wesley Snipes. Quello che ho chiesto subito è stato “Quanto posso essere sanguinolenta?”.
Diciamo che in quel caso mi hanno concesso abbastanza libertà e ho accettato.
Solo che di vampiri nel fumetto ne sono apparsi pochi, perché, alla fine, Blade combatte con altri ‘tipi di forze’. Ma quei pochi che sono apparsi sono stati creati con le deformità di quelli che avevo in mente io, ovvero quelli di Angel e Buffy.
Mi sarebbe piaciuto essere anche un po’ più spinta. Anche perché se il mio riferimento era quello di Wesley Snipes, mi sarebbe piaciuto spingere un po’ più a tavoletta il pedale, ma Brian [Hill n.d.r.] è rimasto un po’ più sul piano esoterico.
Parliamo ora di Kalya. Dal primo numero della serie realizzi le copertine degli albi targati BUGS Comics. Cosa ti lega a questo personaggio? Cosa ti affascina di questo progetto italiano?
Il mio legame con Kalya nasce dall’amicizia con Gianmarco Fumasoli [direttore editoriale Bugs Comics e sceneggiatore di fumetti n.d.r.], Luca Lamberti e Leonardo Cantone.
La cosa che mi ha interessato sin dall’inizio è stata che, quando fu creato, fu qualcosa di nuovo per il mercato italiano. Era anche una sfida: buttarsi sulle edicole con un fantasy?! Insomma ci ho creduto. E poi i ragazzi me ne parlavano già da un po’ di come era strutturato. Con un world building accurato e tutta quella precisione che ci stavano mettendo, mi hanno ‘comprata’ facilmente.
E ci starò fino alla fine perché, innanzitutto, a me piace concludere le cose e poi le copertine di Kalya sono un momento di ‘sfogo’ nonché l’unica occasione in cui mi posso dedicare anche un po’ al colore.
Inoltre della creazione delle copertine ne parlo sempre insieme agli altri. Vengono realizzate con una vera e propria ‘costruzione a tre’ e abbiamo anche creato questa impronta che si diversifica sulla cover in base alle stagioni.
Si può notare un’evoluzione delle copertine e si è creata una bella sinergia. E a Gianmarco ho detto “fino a quando vuoi fare Kalya, io ci sono”.
Mi piace paragonare ‘l’invasione degli artisti italiani oltreoceano’ degli ultimi anni a quello che è successo tra gli anni ‘80 e ‘90 con gli sceneggiatori inglesi che, all’epoca, si sono impossessati di gran parte del mercato dei comics. Credi che quanto successo sia ‘solo’ perché obiettivamente siete più bravi, o perché avete portato una ventata di freschezza e originalità nel fumetto USA che forse mancava da tempo?
Oddio qualcosa che mancava non te lo saprei dire, e non credo dipenda tanto dalla nazionalità, ma dall’artista in sé. Questa sorta d’invasione può essere dipesa da vari fattori quali, a livello artistico, il fatto che ce la caviamo. Siamo bravi. [risata n.d.r.]
Poi dipende tanto anche dalla sensibilità della persona. Di sicuro siamo dei gran lavoratori, ovvero abbiamo una determinata impronta mentale del ‘lavorare senza mai alzare la testa’ che cerchiamo anche di tramandare ai ragazzi.
Infine nonostante esigenze di vita diverse [rispetto agli Stati Uniti nd.r.] ci adattiamo più facilmente a mantenere certi ritmi, tempistiche lavorative e stili.
Bisogna tener conto che loro hanno sempre avuto solo il fumetto americano mentre noi siamo sempre stati un ‘porto di mare’ a livello artistico. Abbiamo attinto da diverse culture quali America, Spagna, Francia, Giappone, ecc. che abbiamo mischiato e da questo mix ne è venuto fuori qualcosa che sta funzionando evidentemente.
Attualmente stai lavorando su una miniserie in 5 parti che vede il ritorno dei Runaways all’interno del maxi evento Marvel “One World under Doom”. Ci puoi anticipare qualcosa? Vedremo la formazione originale dei Runaways creati da Brian K. Vaughan e Adrian Alphona o ci sarà qualche personaggio inedito, magari da te creato per l’occasione?
Ti posso parlare del gruppo perché è già uscita l’immagine. [Sono uscite successivamente a questa intervista diverse nuove immagini su Runaways di Rainbow Rowell e Elena Casagrande che potete ammirare sul suo profilo social]
La serie parte esattamente da dove era finita l’ultima run. Nel team vedremo Gib, alieno e “custode” della casa, Gertrude, Molly e Nico che sono rimaste nella casa. Era andata via Karolina e Chase era scappato, ma torneranno entrambi. C’è anche Victor, e molto probabilmente Alex che mi hanno fatto disegnare, ma al momento non è riapparso [e tornerà anche lui, dalle nuove immagini mostrate sui social da Elena recentemente che presentano i protagonisti di Runaways n.d.r.].
L’unico che veramente cambierà sarà Chase, perché mi è stato chiesto di stravolgerlo. Lui sarà la novità più grande a livello di team.
La serie si ricollega all’evento con il Dr. Doom che è in corso adesso [One World under Doom, uscito negli States e in arrivo prossimamente in Italia n.d.r.], perché all’interno del gruppo c’è un Doombot. Diciamo che questo è stato l’aggancio che hanno pensato per rilanciare i Runaways.
Sono contenta di lavorare con la stessa sceneggiatrice dell’ultima run [Rainbow Rowell n.d.r.] perché ho apprezzato tanto quel mood della serie anche se anagraficamente è lontana da me, in quanto è molto teen.
Però, avendo letto i numeri precedenti rispetto a quelli dove sto lavorando io, un certo affetto per i personaggi c’è, ed è divertente giocarci sopra. Vedremo cosa accadrà, perché al momento ho solo il numero uno in mano e, anche volessi, non potrei dirti più di tanto al momento.
Prima hai detto che sei una grandissima amante del manga, che avresti voluto adottare uno stile più simile a quello nipponico all’inizio della tua carriera scolastica, ma i tempi non erano ancora maturi. Ora, invece, con il successo del manga europeo, hai un sogno nel cassetto relativo alla realizzazione di un’opera dalle atmosfere e dallo spirito più orientale, magari anche in veste di autrice unica?
Vuoi la risposta lunga o quella corta? [risata n.d.r.] La risposta corta è: SI.
La risposta lunga è: un progetto nel cassetto ce l’ho. Mi piacerebbe farlo, ma da una parte mi rendo conto che al momento mi mancano gli strumenti di scrittura e questo potrebbe ostacolare l’opera.
Poi, ad essere sinceri, attualmente per il lavoro che faccio sono abituata a percepire uno stipendio. Un progetto del genere prevede anche altre modalità di guadagno a cui mi dovrei adattare, che per adesso non potrei permettermi. E poi non ho materialmente tempo adesso, e dovrei portarlo avanti parallelamente con il resto.
Diciamo che sta maturando e ogni tanto aggiungo qualcosina, ma per adesso sta là nel cassetto.
Bene. Questa era l’ultima domanda e quindi salutiamo e ringraziamo Elena per la sua disponibilità e il suo tempo e… alla prossima!
Grazie a voi e alla prossima! Ciao!