Non c’è niente di più rumoroso del silenzio. È quello che Bruce Springsteen cerca, o forse teme, nel film di Scott Cooper, Springsteen: Liberami dal Nulla.
Dopo mesi di tour, palchi e applausi, la leggenda del rock – qui ancora nella prima fase della sua carriera, precedente al successo mondiale che arriverà con Born in the USA – si ritrova improvvisamente sola, immersa in un vuoto che fa più paura del meraviglioso frastuono dei concerti.
È da quel silenzio che Bruce cerca di ripartire, raccontandosi al suo pubblico come non aveva mai fatto prima. Nell’incertezza più totale, nel dubbio se tornare alle origini oppure andare avanti, verso l’ignoto.
Il grande problema è che sia il passato che il futuro fanno paura. Allo stesso modo.
Scott Cooper, già regista di Crazy Heart, costruisce qui un racconto intimo, quasi spirituale, ispirato al libro Liberami dal Nulla – Bruce Springsteen e Nebraska di Warren Zanes.

Se vi aspettavate il classico biopic su una rockstar, probabilmente resterete delusi. Perché questo film parla di tutt’altro: è un atto di confessione, un viaggio nell’anima di un artista che ha imparato che non sempre la verità si trova davanti a una folla, ma spesso si nasconde nel riflesso di uno specchio, o nelle note registrate in una stanza buia.
Oppure in un ricordo in bianco e nero, che non accenna a volare via del tutto.
Che resta nel profondo dell’anima a scavare un buco, sempre più profondo, in cui Bruce andrà a nascondersi, a rifugiarsi.
Dentro la stanza di Springsteen, tra il buio e la musica
La casa nel New Jersey diventa un santuario di redenzione. Bruce, interpretato da un Jeremy Allen White magnetico e vulnerabile, si chiude tra quattro mura, accompagnato solo da una chitarra, un registratore e i propri demoni. Lontano dai riflettori, la sua musica cambia volto: non più inni da stadio, ma ballate spoglie, nate da ferite che sanguinano ancora.
A guidare Springsteen attraverso quel periodo tormentato c’è una presenza silenziosa ma decisiva: Jon Landau (interpretato da un intenso Jeremy Strong). Non solo un manager, ma un alleato, un amico, quasi un padre. È lui a credere in Bruce quando il resto del mondo non capisce, a tendergli la mano mentre il Boss cerca un modo per dare voce al proprio dolore.
Insieme affrontano il rischio di pubblicare Nebraska così com’è, senza spiegazioni, senza compromessi, senza campagne pubblicitarie o tour a supporto. Diciassette brani nudi, imperfetti, carichi di verità. Una scelta coraggiosa, quasi incosciente, ma necessaria: perché certe emozioni non si raccontano, si lasciano semplicemente ascoltare.
Il momento che racchiude tutto
C’è un momento, nella prima parte del film, che ne racchiude il cuore. Bruce Springsteen, con lo sguardo pieno di fatica, guida verso la sua nuova casa a Colts Neck. Alla radio risuona Hungry Heart, ma dopo un mormorato “No”, spegne la musica. Troppo rumore. Troppe aspettative.
È appena rientrato dal River Tour del 1981, logorato, vuoto. In quell’istante sceglie di rallentare, di tornare alle radici, di cercare di colmare un vuoto che non riesce a comprendere, ma che in quel momento non può riempire solo con la musica. Quella è la sua ancora, la sua Fortezza della Solitudine… ma serve altro.
Forse l’amore. Forse l’incontro con una ragazza che riesca a guardare nella sua anima, oltre la rock star.
Forse. ma non è detto che sia così. Forse alla fine a Bruce serviva solo spegnere il rumore del mondo.
L’uomo (a pezzi) prima del mito
L’aspetto più interessante del film è che Cooper evita qualsiasi deriva celebrativa. Non c’è la gloria, non c’è il mito come in Bohemian Rhapsody, ma un uomo che fatica a convivere con la propria ombra, che diventa più cupa ogni giorno che passa.
Il film torna indietro, al 1957, nei ricordi di un’infanzia difficile: un padre (un superbo Stephen Graham) annegato nell’alcol e nella rabbia, una madre (una toccante Gaby Hoffman) che cerca di proteggere quel bambino terrorizzato, che un giorno diventerà il Boss.
Ed è proprio lì che tutto comincia. Nei traumi, nelle urla, nel bisogno di trasformare la paura in melodia. La musica, per Bruce, non è mai stata solo arte: è stata sopravvivenza.
Jeremy Allen White: il cuore pulsante del film
Il volto di Jeremy Allen White – fragile, intenso, perennemente in bilico tra rabbia e malinconia – diventa la maschera perfetta per raccontare il tormento interiore del Boss. Non c’è imitazione, non c’è artificio. La sua interpretazione è pura immersione: corpo, voce e anima che si fondono fino a diventare un tutt’uno con la figura di Springsteen.
E alla fine, ci credi. Quello che stai vedendo è Bruce Springsteen, quello che diventerà il Boss… ma che ancora non lo è, anche se tutti lo chiamano così. Non può esserlo, principalmente perché non vuole esserlo.
La scena in cui incide Born in the U.S.A. è un momento di cinema da brividi: non è solo una canzone, ma un urlo liberatorio. White canta con tutta la disperazione e la dignità di un uomo che finalmente smette di scappare da sé stesso… almeno in quel momento.
Un film che vibra come un’armonica
Come A Complete Unknown di James Mangold, anche Springsteen: Liberami dal Nulla racconta la fragilità dell’artista che si spoglia di tutto. Ma se Dylan ha scelto di nascondersi dietro un paio di occhiali scuri, Springsteen ha fatto l’opposto: ha deciso di mostrarsi nudo, vulnerabile, vero.
Il film vibra come una vecchia armonica folk: malinconico, graffiato, pieno di ferite che diventano musica. Cooper – proprio come lo Sprigsteen del film – non cerca la perfezione visiva, ma l’imperfezione dell’anima. È un racconto di silenzi, di sguardi, di respiri trattenuti.
My Father’s House
Nel finale, mentre le note di My Father’s House si dissolvono nel buio, non c’è più la rock star: c’è solo un uomo che guarda il proprio passato negli occhi. Un figlio che smette di fuggire, che trova finalmente il coraggio di perdonare.
Non sappiamo se Bruce oggi riesca davvero a sentirsi libero, forse la libertà, per lui, è un traguardo che si rincorre per tutta la vita. Ma in quell’ultimo sguardo, in quella quiete fragile che lo avvolge, c’è qualcosa di nuovo: la pace che nasce dal perdono, il respiro di chi accetta le proprie ferite e decide di non averne più paura.
E allora Springsteen: Liberami dal Nulla diventa questo: non la storia di una liberazione, ma di una riconciliazione. Un film che ci ricorda che, a volte, il passo più difficile non è correre lontano, ma tornare a casa.

Springsteen: Liberami dal Nulla
Jeremy Allen White: Bruce Springsteen
Matthew Anthony Pellicano: Bruce Springsteen da bambino
Jeremy Strong: Jon Landau
Paul Walter Hauser: Mike Batlan
Stephen Graham: Douglas Springsteen
Odessa Young: Faye
Gaby Hoffmann: Adele Springsteen
Marc Maron: Chuck Plotkin
David Krumholtz: Al Teller
Johnny Cannizzaro: Steven Van Zandt
Harrison Gilbertson: Matt Delia
Chris Jaymes: Dennis King