Per cogliere davvero il senso profondo de La Valle dei Sorrisi, bisogna fare un passo indietro e affrontare un dato di fatto tanto evidente quanto scoraggiante: in Italia, l’horror si è arenato. Bloccato da decenni su una sponda nostalgica, tra gli echi degli anni ’70 e ’80, incrostato in un’estetica che non ha mai davvero fatto i conti con il tempo che passa. È come se, da un certo punto in poi, il nostro cinema avesse semplicemente smesso di interrogarsi su cosa faccia davvero paura oggi.
L’horror italiano: un genere fermo nel tempo
Le ragioni? Tante. E ancora tutte sul tavolo. C’è chi dà la colpa a produttori prudenti, chi a distributori poco lungimiranti, chi a un pubblico ritenuto troppo serioso – o troppo snob – per lasciarsi andare a certi “giochi” narrativi. Ma al di là delle ipotesi, la realtà è sotto gli occhi di tutti: con rare eccezioni, in Italia l’horror ha continuato a parlare la lingua del Giallo, possibilmente con sfumature color Argento (nel senso di Dario, ovviamente), mentre nel resto del mondo il genere ha cambiato pelle.
Altrove, l’horror è diventato un campo fertile per riflessioni esistenziali, traumi collettivi, tensioni sociali. Ha smesso di rincorrere il sangue per guardare più in profondità: dentro i corpi, dentro le famiglie, dentro le fratture dell’anima. Da noi, invece, è come se il tempo si fosse fermato.
E proprio per questo, La Valle dei Sorrisi arriva come qualcosa di inaspettato. E, forse, necessario.
Ma facciamo un ulteriore passo indietro.

Paolo Strippoli, una nuova voce del terrore
Quando sembrava che l’Italia non avesse nulla da dire in questo senso, ecco che nel 2021 arriva A Classic Horror Story, opera di Roberto De Feo e Paolo Strippoli. Un titolo ironico, programmatico, quasi provocatorio: una classica storia horror. Ma, in realtà, un esperimento metacinematografico che tenta di condensare, digerire e reinterpretare decenni di linguaggio orrorifico – da The Texas Chainsaw Massacre a Midsommar – nel contesto italiano.
Il film funziona. Non perché porti qualcosa di radicalmente nuovo al panorama internazionale, ma perché ha il coraggio di fare in Italia quello che da noi non si faceva più: raccontare l’orrore come costruzione, come codice narrativo, come linguaggio da riscoprire. E lo fa con un’energia giovane, con una certa ingenuità, sì, ma anche con una sfrontatezza benefica. A Classic Horror Story si comporta come se tutto fosse nuovo, come se arrivasse per primo su un terreno già ampiamente esplorato altrove. E in questo paradosso risiede il suo fascino. In un paese dove l’horror sembrava sparito, quell’operazione è sembrata – per certi versi – rivoluzionaria.
E poi c’era lui, Paolo Strippoli. Che da subito si è distinto come un talento da tenere d’occhio.

Nel 2022, Strippoli firma il suo secondo lungometraggio, Piove. Un horror urbano, sporco, livido. Un’opera cupa e disturbante che si apre sotto il peso della censura – inizialmente vietata ai minori di 18 anni, poi ridimensionata – ma che non ha paura di sporcarsi le mani con i temi più scomodi: la rabbia repressa, il disagio familiare, il lutto, la violenza psicologica. È un film che guarda esplicitamente ai maestri dell’horror d’oltreoceano, ma lo fa attraverso una lente tutta italiana, fatta di conflitti generazionali, disagio sociale e disperata solitudine.
Con Piove, Strippoli dimostra di saper usare l’horror come metafora, come lente deformante sulla realtà, come dispositivo critico. E non è poco.
Ed eccoci arrivati al presente.

Remis e la “positività tossica”
Dopo anni di scrittura, riflessione e gestazione – ben sette, come ha raccontato lui stesso – Paolo Strippoli torna con La Valle dei Sorrisi, prodotto da Fandango, Vision Distribution e Nightswim. Il film è ambientato in una cittadina fittizia del Nord Italia, Remis, un luogo così perfetto da sembrare irreale. Tutti sono felici. Sorridono, si abbracciano, vivono in apparente armonia. Ma qualcosa non torna.
Fin dalle prime inquadrature, La Valle dei Sorrisi rivela la sua vera natura: un horror inquietante, sottilmente disturbante, che si insinua nelle pieghe del quotidiano. A interpretare il protagonista troviamo un intenso Michele Riondino, nei panni di un insegnante di ginnastica dal passato tragico, trasferitosi a Remis per ricominciare. Ma il trauma non è scomparso: è solo sepolto. E in quel nuovo microcosmo, tutto sembra costruito per negare il dolore, per anestetizzare la sofferenza. Anche a costo di sacrificare la propria umanità.
L’incontro con un adolescente misterioso – interpretato dall’esordiente Giulio Feltri – apre le porte a un universo simbolico che non concede sconti. La comunità lo venera, lo teme, lo usa. Ma a quale prezzo?

La Valle dei Sorrisi si iscrive in quella nobile tradizione del cosiddetto “folk horror”, declinato però in chiave italiana. Vengono in mente certi lavori di Pupi Avati o Lamberto Bava. L’horror, qui, è nel paesaggio, nella comunità chiusa e ossessiva, nel culto cieco, ma soprattutto nei personaggi. E qui, viene in mente The Wicker Man. Perché il vero cuore del film non sono i mostri, ma le persone.
Anime spezzate, fragili, talvolta disgustose, ma sempre profondamente umane. Strippoli non ragiona in termini di buoni e cattivi: mette in scena individui disposti a tutto pur di non sentire più dolore. Disposti a chiudere gli occhi, a ignorare la realtà, a stringersi in un abbraccio tossico e collettivo che annulla ogni forma di dissenso.
Remis non è solo un luogo: è un simbolo. Rappresenta quella parte della società che rifugge il dolore a ogni costo, che lo rimuove, lo reprime, lo trasforma in un tabù. È il mondo della “positività tossica”, dove tutto deve andare bene, dove la tristezza è una colpa, dove l’empatia è simulata e codificata. Ma sotto la superficie, si agita un orrore ben più profondo: quello dell’annientamento emotivo.
Strippoli costruisce un universo narrativo dove il dolore è il vero motore della storia. E il film diventa così una riflessione tagliente sull’egoismo, sulla genitorialità, sul rapporto padre-figlio, sugli errori che – consapevolmente o meno – si trasmettono da una generazione all’altra. Un viaggio nel cuore oscuro dell’essere umano.

La Valle dei Sorrisi ti resta dentro
Visivamente curato, mai banale nella messa in scena, La Valle dei Sorrisi evita le scorciatoie tipiche del genere. Non cerca il jump scare facile, non indulge nella violenza gratuita. Preferisce la vertigine emotiva, quella che resta dentro anche quando i titoli di coda sono finiti. Perché Remis resta. Resta nella mente dello spettatore come un luogo reale, tangibile, inquietante. E ci si ritrova, nei giorni successivi, a pensarci ancora, a immaginarla nascosta tra le montagne, in attesa. Pronta ad accogliere chiunque abbia ancora necessità di un abbraccio. Di una tregua. Di una via di fuga dal dolore.
Perché dopotutto, ciascuno di noi ne ha bisogno.
E questo, a conti fatti, fa davvero paura.
In sostanza, con La Valle dei Sorrisi, Paolo Strippoli conferma – se mai ce ne fosse stato bisogno – di essere una delle voci più interessanti e mature del nuovo cinema italiano. Non solo horror: cinema, punto. Il suo sguardo è lucido, profondo, coraggioso. E se c’è una strada per far risorgere il genere nel nostro paese, probabilmente passa anche da qui.

La Valle dei Sorrisi
Michele Riondino: Sergio Rossetti
Giulio Feltri: Matteo Corbin
Paolo Pierobon:
Romana Maggiora Vergano:
Sergio Romano:
Anna Bellato:
Sandra Toffolatti:
Roberto Citran:

