The Smashing Machine – Il film più personale e drammatico di The Rock

A Venezia82 abbiamo visto in anteprima il film The Smashing Machine di Banny Safdie, con Dwayne Johnson nei panni del lottatore Mark Kerr. Ecco la nostra recensione, ovviamente senza spoiler

Diletta Chiarello
copertina recensione the smashing machine

Ci sono biopic che si limitano a seguire le tappe di una carriera, e poi ci sono film che prendono un personaggio e lo usano come specchio dell’umano, come lente per guardare in profondità fragilità e ossessioni. The Smashing Machine appartiene senza dubbio alla seconda categoria. Il regista Benny Safdie, qui alla sua prima regia in solitaria, non costruisce un monumento a Mark Kerr – uno dei lottatori più noti nella storia delle arti marziali miste – ma al contrario mette a nudo l’impossibilità di vivere all’altezza di un mito.

Il titolo stesso, che riprende il soprannome con cui Kerr era conosciuto sui ring internazionali, viene rovesciato: la “macchina da demolizione” non è tanto l’uomo che schiaccia gli avversari, ma il sistema che divora chi prova a incarnarne il ruolo.

The Smashing Machine si colloca in un territorio ibrido, tra racconto sportivo, dramma psicologico e riflessione quasi filosofica sul corpo. Il ring, con le sue regole feroci e ancora instabili negli anni Novanta, diventa una metafora del mondo: luogo di gloria e dolore, spazio in cui la violenza è legittimata ma in cui la sofferenza più grande si consuma lontano dagli occhi del pubblico.

Kerr emerge così come figura tragica, moderna e arcaica insieme: un gladiatore che sembra dominare il proprio tempo, ma che in realtà è dominato da esso, intrappolato in una catena di aspettative, dolori fisici e dipendenze che lo riducono a un guscio.

The Smashing Machine

Dwayne Johnson è la vera Smashing Machine

La scelta di Dwayne Johnson, The Rock, come protagonista è già di per sé un gesto emblematico. L’attore, da sempre associato a ruoli di invincibilità e forza iperbolica, si offre qui in una versione vulnerabile, quasi anti-eroica. Il personaggio gli chiede di abbandonare la corazza hollywoodiana e di abitare un corpo che non è più simbolo di potenza, ma di fragilità estrema. Il risultato è sorprendente: Dwayne Johnson riesce a trasmettere non solo la fatica fisica, ma soprattutto la condizione di un uomo logorato dal bisogno di anestetizzare il dolore con farmaci e stupefacenti, incapace di distinguere la disciplina dal tormento.

Il suo volto, che eravamo abituati a vedere come icona di intrattenimento mainstream, qui diventa terreno di crollo emotivo.

Accanto a lui Emily Blunt interpreta Dawn Staples, nonché la compagna che vive accanto alla “macchina” senza mai riuscire davvero a penetrarne i meccanismi. Il film restituisce con durezza la dinamica di una relazione che oscilla tra amore e dipendenza reciproca, tra sostegno e distruzione. Non è una semplice figura di contorno: è il riflesso speculare del protagonista, costretta a condividere una battaglia che non ha scelto ma dalla quale non riesce a fuggire.

Emily Blunt restituisce tutta la complessità di una donna che resiste finché può, consapevole che l’uomo che ama è al tempo stesso carnefice e vittima di sé stesso.

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Non il classico biopic sportivo, ma un dramma umano

La regia di Safdie si distingue per il rifiuto della retorica sportiva. Non ci sono montaggi trionfali né celebrazioni di vittorie epiche. Al contrario, i combattimenti sono momenti di alienazione, dove la macchina da presa indugia più sulle pause che sui colpi, sui respiri affannati più che sull’esaltazione del pubblico.

Il rimbombo dei colpi si mescola ai silenzi domestici, creando un cortocircuito tra la violenza del ring e quella, più sottile ma non meno devastante, della vita privata. È in questa dialettica che il film trova la sua vera forza: non esiste differenza tra l’arena e la quotidianità, perché entrambe diventano terreni di scontro e di sopravvivenza.

Mark Kerr non esiste se non come corpo performante: la sua reputazione, la sua carriera e persino i suoi affetti ruotano intorno alla sua capacità di essere “la macchina”. Ma cosa resta quando quel corpo inizia a cedere? È questa la domanda che Safdie pone con brutalità in The Smashing Machine.

the smashing machine

Non c’è riscatto pieno né vittoria definitiva. Ciò che rimane è un senso di disarmo, ma anche di sollievo: la consapevolezza che solo accettando la sconfitta si può smettere di essere prigionieri della vittoria. È qui che Johnson sorprende di più, regalando un incrinato sorriso che vale più di qualsiasi medaglia. È l’immagine di un uomo che non ha più bisogno di essere leggenda per esistere.

The Smashing Machine è un’opera che scardina i confini del biopic sportivo e li trasforma in un’indagine universale sulla vulnerabilità umana. Benny Safdie dimostra di non essere interessato alla celebrazione ma alla verità, anche quando questa verità è scomoda, cruda, dolorosa. È un film che divide, che può lasciare spiazzati proprio perché rifiuta il comfort della retorica del genere, ma che proprio per questo si rivela un film che può essere apprezzato anche dai più lontani dalla violenza dello sport sul ring.

The Smashing Machine

The Smashing Machine

Anno: 2025
Paese: USA
Durata: 123 minuti
Regia, soggetto e sceneggiatura: Benny Safdie
Casa di produzione: A24, Magnetic Fields Entertainment, Out for the Count Productions, Seven Bucks Productions
Distributore italiano: I Wonder Pictures
Interpreti e personaggi:
Dwayne Johnson: Mark Kerr
Emily Blunt: Dawn Staples
Ryan Bader: Mark Coleman
Bas Rutten: sé stesso
Oleksandr Usyk: Ihor Vovčančyn
Lyndsey Gavin: Elizabeth Coleman
Satoshi Ishii: Enson Inoue
James Moontasri: Akira Shoji
Yoko Hamamura: Kazuyuki Fujita
Voto:
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