28 Anni Dopo – Non basta sopravvivere per vincere

La saga horror di Danny Boyle torna con un nuovo capitolo, che si distacca in modo significativo dai primi due, pur essendo ambientato nello stesso mondo. Da qui parte una nuova saga e noi vi diciamo cosa ne pensiamo, ovviamente stando attenti a non fare spoiler di alcun tipo. Cosa sarà successo al virus Rage… 28 Anni Dopo?

recensione 28 anni dopo

Dopo oltre due decenni, 28 Anni Dopo segna il ritorno di Danny Boyle alla regia e di Alex Garland alla sceneggiatura, in quello che si configura come il primo capitolo di una nuova trilogia ambientata nell’universo contaminato dal virus Rage. Un ritorno atteso, ma tutt’altro che celebrativo. Boyle e Garland non rincorrono la nostalgia, né si sforzano di aggiornare i codici del genere. Piuttosto, scelgono un approccio più cupo, più spoglio, quasi contemplativo, per raccontare un mondo che non è più in crisi ma ha metabolizzato il collasso.

La loro Inghilterra post-apocalittica non è più quella deserta e improvvisamente devastata vista in 28 Giorni Dopo (2002), né l’area militarizzata e fallimentare di 28 Settimane Dopo (2007). Qui, siamo di fronte a un mondo dove la pandemia non è più una notizia. Il virus Rage esiste ancora, ma è parte del paesaggio. Le persone non combattono più per ricostruire: vivono in ciò che resta, adattandosi, sopravvivendo, obbedendo a nuove regole che assomigliano più a rituali tribali che a leggi civili.

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Il primo film della saga, 28 Giorni Dopo, aveva segnato un punto di svolta nel cinema post-apocalittico, portando una sensibilità da film indipendente in un genere dominato fino a quel momento da formule consolidate. Boyle aveva girato in digitale, con camere leggere e budget limitato, privilegiando il senso di spaesamento e isolamento piuttosto che l’azione pura. I suoi infetti non erano morti viventi, ma uomini accecati dalla rabbia, colpiti da un virus che amplificava l’aggressività umana. Era una metafora potente: non la morte, ma la furia era il motore dell’orrore.

Il secondo film, 28 Settimane Dopo, diretto da Juan Carlos Fresnadillo, aveva alzato il tiro sul piano spettacolare, spostando l’attenzione sulla gestione militare dell’emergenza. Il virus tornava a diffondersi, ma la vera catastrofe era l’incapacità delle autorità di controllare il panico e la violenza. Più hollywoodiano, più corale, ma comunque fedele alla visione disillusa della saga.

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28 Anni Dopo il virus c’è ancora, ma è un mondo nuovo

28 Anni Dopo si distacca da entrambi. Non cerca di stupire né di spaventare a colpi di jump scare. È un film che lavora sull’atmosfera e sull’inesorabilità. Il tempo passato ha cambiato il virus, certo – ci sono nuove varianti, infetti più resistenti, quasi “gerarchizzati” – ma soprattutto ha cambiato l’uomo. I pochi nuclei sopravvissuti vivono in comunità isolate, segnate dalla sfiducia, dal silenzio e da una sorta di religione laica fatta di superstizioni e leggi improvvisate. Il virus non è più il problema principale. Lo è la mentalità post-pandemica.

L’uomo è sempre stato il vero nemico, ma qui il discorso si fa più sfumato. La violenza non è esplosiva, è quotidiana, è nella mancanza di empatia, nell’egoismo che si è fatto struttura, nella convinzione – profondamente sbagliata – che basti sopravvivere per vincere. È lo stesso messaggio che aveva attraversato la serie The Walking Dead nei suoi momenti migliori: dopo un certo punto, i mostri smettono di fare paura. È l’umanità stessa a diventare il problema.

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Il film ruota attorno a una vicenda familiare, scelta narrativa che consente un’esplorazione più emotiva, ma senza sentimentalismi. C’è un padre, ex soldato o comunque figura autoritaria, capace di combattere ma incapace di stabilire un vero contatto con il figlio. C’è una madre gravemente malata, simbolo di una fragilità che non trova posto in una società che premia solo chi è utile.

E c’è il figlio, un adolescente che decide di intraprendere un viaggio per cercare un medico, forse uno degli ultimi, in grado di salvare la madre. Il viaggio diventa occasione per attraversare l’Inghilterra post-Rage, per vedere cosa ne è rimasto: piccole enclave, ruderi abitati, territori militarizzati o completamente abbandonati. Tutto è cambiato e niente sembra più degno di essere ricostruito.

Dal punto di vista tecnico, 28 anni dopo torna a un’estetica fatta di inquadrature instabili, luce naturale, ambienti spogli. Boyle ha utilizzato un’ampia gamma di dispositivi per le riprese – dalle cineprese digitali leggere a iPhone e droni – per mantenere una flessibilità produttiva e visiva. La fotografia, volutamente desaturata, privilegia i vuoti, le distanze, i margini. Non c’è quasi mai senso di centro, di direzione. La messa in scena riflette lo stato mentale dei personaggi: disorientati, isolati, fatalisti.

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Le scene d’azione, molto efficaci, non cercano la spettacolarità, bensì rincorrono una brutalità latente. Quando arriva la violenza, è improvvisa, sporca, senza coreografia, non c’è estetica della battaglia, solo caos e perdita. Il montaggio alterna ritmo lento a esplosioni di tensione, senza mai indulgere in effetti speciali inutili. L’orrore non sta nella creatura, ma nella reazione umana di fronte alla minaccia.

La sceneggiatura di Garland è fedele a sé stessa: asciutta, non didascalica, quasi ellittica. I dialoghi sono ridotti al minimo, molti passaggi chiave si colgono per implicito. Si potrebbe anche dire che 28 anni dopo non ha veri “spiegoni”: la storia si capisce attraverso i gesti, i contesti, le assenze. È un film che si affida all’intelligenza dello spettatore.

Rispetto ad altri recenti film post-apocalittici – come The Road di John Hillcoat, Children of Men di Alfonso Cuarón o It Comes at Night di Trey Edward Shults – 28 Anni Dopo si colloca in una zona intermedia tra il minimalismo poetico e l’efficienza narrativa. Non è allegorico come The Road, né visionario come Children of Men. Ma condivide con entrambi una visione del futuro come qualcosa di ridotto, impoverito, quasi inerziale. Il mondo non è finito: si è semplicemente svuotato.

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Il tema ricorrente della trilogia, la rabbia, torna anche qui. Ma si è evoluta. Non è più urlo e violenza: è sistema. È diventata ideologia. La civiltà, dopo aver toccato il fondo, non ha imparato nulla, ha solo cambiato forma, mantenendo le stesse logiche di controllo, esclusione, sopravvivenza del più forte.

Nel complesso, 28 Anni Dopo è un film lucido, essenziale e molto efficace. Non offre speranza, né redenzione. Non cerca di rilanciare i precedenti capitoli con soluzioni facili o concessioni al fan service. Piuttosto, chiude un ciclo o al massimo lo trasforma, con una freddezza che non è cinismo, ma consapevolezza. Non siamo più nella fase dell’epidemia: siamo nella sua conseguenza permanente. E questa, forse, è la parte più inquietante.

28 Anni Dopo

28 Anni Dopo

Titolo originale: 28 Years Later
Paese di produzione: Regno Unito, Stati Uniti d'America
Anno: 2025
Durata: 115 min
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Alex Garland
Casa di produzione: Columbia Pictures, British Film Institute, DNA Films, Decibel Films, TSG Entertainment, Sony Pictures Releasing
Distributore italiano: Eagle Pictures
Interpreti e personaggi:
Jodie Comer: Isla
Aaron Taylor-Johnson: Jamie
Ralph Fiennes: Dr. Kelson
Jack O'Connell: sir Jimmy Crystal
Alfie Williams: Spike
Erin Kellyman: Jimmy Ink
Edvin Ryding: E. Sundqvist
Voto:

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Sveva

Alberica Sveva Simeone

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Classe '78, romana. Coltiva sin da piccola l'interesse per il genere horror e il cinema. Appassionata di cultura pop, film anni '80, amante della città di New York e dei viaggi in generale. È autrice, podcaster e youtuber. Ha pubblicato numerosi racconti e romanzi e scritto diversi soggetti cinematografici e televisivi. È sceneggiatrice di Dylan Dog per Sergio Bonelli Editore e saggista per Odoya Edizioni.

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