Abbiamo avuto il grande piacere di scambiare quattro chiacchiere con uno degli scrittori più apprezzati del mondo dei comics: l’unico in grado di rivitalizzare ogni personaggio con il suo tocco magico, che attinge dalle storie classiche, ma con lo sguardo sempre rivolto al futuro. Signore e signori, è con noi Mark Waid, lo scrittore senza limiti
In tanti anni che leggo fumetti di supereroi, ho imparato una sola, grande lezione: se c’è un nome che mette tutti d’accordo, è sicuramente quello di Mark Waid. Parliamo di uno scrittore di razza, capace di evolversi continuamente, senza mai tradire sé stesso o i personaggi su cui è chiamato a lavorare.
Waid, in tutta la sua carriera, non si è limitato “semplicemente” a scrivere ottime storie: lui è riuscito a creare un rapporto speciale con i lettori, che da sempre si sono sentiti rappresentati – e in qualche modo tutelati – da un professionista esemplare, che tutti noi abbiamo iniziato a considerare quasi come un amico.
Se con la run di Flash ci ha conquistato, è stato con Kingdom Come che ci ha fatto vedere il futuro, creando il capolavoro indiscusso degli anni 90. Quello in cui ribadiva, qualora ce ne fosse bisogno, che gli eroi – quelli veri – non mollano mai, neanche di fronte alla fine del (loro) mondo. Neanche quando la minaccia arriva da dentro, spaccando il domani con la stessa intensità di un tuono.
Waid ha portato Capitan America nel nuovo Millennio, ci ha fatto divertire con Spider-Man, ha riscritto le origini di Superman, ci ha fatto vedere l’inferno e il paradiso sulle pagine dei Fantastici Quattro, ha rilanciato gli Avengers, restituito il sorriso a Daredevil, ha lanciato i Migliori del Mondo, Shazam! e per ben due volte la Justice League, facendola diventare letteralmente “Senza Limiti”.
Esattamente come lui: nulla può fermare l’immaginazione di Mark Waid, quella che ci fa sentire a casa, al sicuro, con lo sguardo sempre rivolto verso la prossima avventura.
Ed è per noi un grande onore poterlo finalmente ospitare sulle pagine di MegaNerd.
Signore e signori, è con noi Mark Waid, lo scrittore senza paura, senza limiti o confini.
Uno dei Migliori del Mondo, senza alcun dubbio.
Ciao Mark, benvenuto su MegaNerd! Riesci a ricordare un solo momento della tua vita senza i fumetti?
Mai. Nemmeno uno. Ho iniziato a leggere e collezionare fumetti a quattro anni e non ho mai smesso.
Verso la metà degli anni 80 approdi in DC dopo un periodo in Fantagraphics: da quel momento i supereroi diventano il tuo pane quotidiano, li capisci bene e forse loro – in qualche modo – capiscono te. Com’è stato l’approccio con l’editore di icone come Superman, Batman e Wonder Woman?
È stato fantastico. Era il lavoro dei sogni, per me. Non avevo grandi ambizioni da scrittore — onestamente, volevo solo fare l’editor — ma dopo un paio d’anni in ufficio mi sono reso conto che preferivo lavorare per conto mio. Per fortuna, avevo imparato abbastanza come editor (studiando le sceneggiature dei migliori autori del settore) da poter fare il salto.
Parliamo un po’ della linea Elseworlds di DC: in pochi lo ricordano, ma tu hai contribuito in modo decisivo a crearla. Quella che inizialmente sembrava essere la risposta ai “What If…?” della Marvel ben presto è diventata molto di più…
Nel 1989 ero l’editor della serie antologica SECRET ORIGINS, che era esattamente ciò che sembra: storie di origini. Stavamo per pubblicare un numero annuale extra-large, ma non avevo idea di cosa metterci dentro, visto che ormai avevamo coperto tutti i grandi eroi e villain DC. Così ho pensato: perché non fare quattro “origini alternative”?
Tipo: e se Superman fosse atterrato in Russia? E se Flash operasse nel futuro remoto? E se Batman fosse esistito cento anni fa? Era solo un pensiero a caso, ma il mio amico e collega editor Brian Augustyn ha preso al volo l’idea di Batman e l’ha proposta come storia a sé stante. È stata subito approvata, soprattutto quando Mike Mignola ha accettato di disegnarla. Il resto è storia…

Passiamo agli anni ’90 — il tuo decennio di svolta. Che ricordi hai di quel periodo?
Il ricordo più forte è una lunga serie di colpi di fortuna. Ho costruito tutta la mia carriera in quel decennio, e l’ho fatto più per caso che per pianificazione, passando da un’opportunità d’oro all’altra. Certo, avevo del talento, ma ho avuto anche una gran fortuna.
Tra i personaggi che hai creato per Flash c’è Bart Allen, alias Impulse. Come è nato questo “Kid Flash del futuro”?
Io e Brian (che era l’editor di Flash) stavamo ragionando su cosa potesse venire dopo per Wally. Abbiamo pensato a un sidekick, com’era stato Wally per Barry, ma ci sembrava un’idea troppo vecchio stile. Poi ci è venuto in mente quanto sarebbe stato divertente un partner che Wally proprio non sopportava, che lo facesse impazzire. E boom: è nato Impulse!

Gran parte di quella run è stata disegnata dall’indimenticabile Mike Wieringo. Vuoi raccontarci qualcosa su questo artista straordinario?
“Straordinario” non basta. Mike era una delle persone più gentili e talentuose che abbia mai conosciuto. Era incredibilmente umile — da qualche parte, starà ancora guardando incredulo l’enorme influenza che ha avuto sulle nuove generazioni di artisti. Metteva sempre, sempre, sempre tutto sé stesso in ogni tavola, e non c’era niente che non fosse in grado di disegnare. Mai una parola fuori posto tra noi. Sapeva quanto lo apprezzassi.

1995: un anno importante per te e per Marvel, visto che arrivi su Captain America. Insieme a Ron Garney hai realizzato uno dei cicli più importanti nella storia del personaggio… che dopo pochi numeri dovette interrompersi “per colpa” dell’evento “Heroes Reborn”. A distanza di tanto tempo puoi dircelo, come hai preso quello stop forzato di un anno al tuo ciclo?
Ora alzo le spalle, ma all’epoca mi ha irritato parecchio. Quando Ron Garney e io abbiamo preso in mano la serie, nessuno ci aveva detto che sarebbe stato solo per pochi numeri (anche se alla Marvel lo sapevano già). E vederla portata via proprio mentre le vendite salivano… è stata una bella scocciatura. Ma a posteriori forse è stato un bene: tornare dopo dodici numeri non proprio brillanti prodotti da Image ha attirato parecchia attenzione.
Su Cap sei arrivato dopo la lunghissima run di Mark Gruenwald: il tuo approccio è stato fresco, trasmetteva entusiasmo e tanta voglia di fare. Da lettore ho avuto la forte sensazione che tu e Garney vi siete divertiti un mondo con Steve Rogers…
Assolutamente. C’era sempre qualcosa di super dinamico nel modo in cui Ron disegnava Cap.

Restiamo ancora un po’ negli anni 90: nel 1996, per l’esattezza, anno in cui esce il primo numero di Kingdom Come, una miniserie che è entrata di diritto nella storia del fumetto illustrata da un Alex Ross semplicemente perfetto. Quando hai finito di scrivere la sceneggiatura, hai avuto la sensazione di aver fatto qualcosa di veramente importante?
A dire il vero, non tanto. Forse un pochino, ma è stato solo con la risonanza mediatica — merchandising, romanzi, audiolibri e tutto il resto — che ho capito che avevamo davvero fatto centro. All’epoca sapevo che era qualcosa di speciale, ma non avrei mai immaginato che ne avremmo parlato ancora quasi trent’anni dopo.
Ci racconti com’è nato questo capolavoro?
Alex Ross è arrivato in DC con un po’ di schizzi di personaggi e appunti scritti a mano, ma senza una vera trama. E visto che la serie doveva toccare l’intero universo DC, gli editor Archie Goodwin e Pete Tomasi hanno coinvolto me per via della mia memoria enciclopedica. Ho parlato un po’ con Alex al telefono, poi ci siamo ritrovati un weekend intero per definire la storia, ed è lì che il progetto ha preso davvero forma.
Com’è stato lavorare a stretto contatto con Alex Ross? Lavorare con un Artista del genere cambia un po’ la normale metodologia di lavoro, il modo in cui imposti una sceneggiatura, in cui descrivi alcune scene?
Non ha cambiato il mio processo, ma mi ha costretto a riflettere di più sulle scelte narrative, per poterle difendere nel caso (e succedeva) che lui avesse bisogno di essere convinto. E viceversa. È stata una bella collaborazione: lavorare con qualcuno che, come me, può parlare per 45 minuti dell’importanza di Martian Manhunter è impagabile.
Parliamo ora di Superman: Birthright, maxiserie del 2003, con cui hai l’opportunità non solo di misurarti con Superman, ma anche di riscrivere le sue origini, rendendole più attuali e re-introducendo elementi dell’era pre-Crisis. Anche in quel caso fu un successo di critica e pubblico, stavolta però l’impresa di conquistare i lettori non era affatto semplice, visto che l’ultimo che aveva ri-narrato le origini di Superman era stato un certo John Byrne… eppure ci sei riuscito, Birthright (Diritto di Nascita, nell’edizione italiana) è oggi considerato un classico del personaggio. Come sei riuscito a trovare la giusta chiave di lettura?
Sono partito proprio dall’essenziale, e ho ricostruito da lì. L’obiettivo era aggiornarlo per un mondo post-11 settembre, senza rinunciare a ciò che funzionava. Dovevo renderlo rilevante per chi lo aveva liquidato come personaggio “vecchio”, quindi ho iniziato a farmi domande nuove: perché la maschera? Perché un’identità segreta? Cosa lo motiva, a parte il classico “è un bravo ragazzo”? Alcune scelte le ho fatte per restare coerente con la continuity DC, anche se non sono proprio parte del mio canone personale — tipo i Kent ancora vivi — ma sono molto fiero di quello che io e Leinil Yu abbiamo fatto.
Hai anche ridato nuova vita ai Fantastici Quattro. Quali idee di base hai usato per costruire la tua versione del gruppo?
Ho cercato di fondere l’immaginazione di Kirby (per quanto possibile, perché è un livello irraggiungibile) con un approccio molto personale. Scrivo sempre i miei personaggi “da dentro”: mi piace pensare a lungo a come vivono nel mondo con i loro poteri. Che suono fa la pelle che si tende? Come fa Sue a vedere mentre è invisibile? Com’è la vita per Johnny, visto che anche senza fiamme fa salire la temperatura di una stanza di cinque gradi? Questo tipo di cose. E volevo far piacere Reed al pubblico, perché all’epoca mi sembrava che nessuno lo sopportasse.
La tua collaborazione con Dan Mora è una delle più acclamate degli ultimi anni. Cosa la rende così efficace?
È semplicemente entusiasta! È disposto a provare qualsiasi cosa, e ogni pagina sprigiona una tale gioia che si sposa benissimo col tono delle mie sceneggiature. Non c’è niente di cupo o fatalista nei suoi disegni, sono pura energia.
Insieme a Joshua Williamson, hai contribuito a plasmare l’universo DC negli ultimi anni. Da cosa nasce l’idea per Justice League Unlimited?
È stata un’idea dell’editor, Paul Kaminski, che è sempre stato un grande fan della serie animata (come me, del resto). L’idea è partita da World’s Finest, dove Paul aveva notato come riuscissi a portare ospiti speciali e darne una versione nuova, magari mai vista prima. Così si è chiesto: se lo faccio con WF, posso farlo anche con tutto l’universo DC?
Stai tornando a scrivere la Justice League dopo più di 20 anni. Com’è tornare su quegli stessi personaggi?
Facilissimo. Li conosco meglio della mia stessa famiglia. Non mi stanco mai di scrivere storie con loro. C’è sempre qualcosa di nuovo da provare, e in una serie come JLU, nuove relazioni da esplorare.
Nel 2015 hai rilanciato gli Avengers. Quali sono gli elementi fondamentali per le storie di ogni team?
Per la JLU, servono minacce che nessun eroe potrebbe affrontare da solo. Per gli Avengers, i pericoli possono anche essere su scala più piccola, purché le dinamiche tra i personaggi siano esplosive e ben costruite.
Cosa ti piace di più nello scrivere queste squadre? E quali sono le sfide più grandi?
Sempre, sempre, sempre le combinazioni tra i personaggi. Mi piace vedere cosa fanno emergere l’uno nell’altro. Martian Manhunter e Dr. Occult, per esempio: due eroi che non hai mai visto insieme, uno praticamente dimenticato — cosa possono avere da dirsi? Che connessioni si possono esplorare che nessuno ha ancora toccato?
Quest’anno, sia Superman che i Fantastici Quattro torneranno al cinema. Che aspettative hai per questi blockbuster?
Altissime. Ho un ottimo presentimento per entrambi. Nessuno sta spezzando il collo a nessuno, per quanto ne so.
Cosa possiamo aspettarci dal futuro di World’s Finest, Justice League, Superman… e Mark Waid?
Oh, non rallento affatto. A breve uscirà The New History of the DC Universe, il mio tentativo di mettere ordine a 90 anni di continuity DC e vari reboot, per offrirci una linea temporale più snella e comprensibile. Ci saranno anche le avventure di Superboy, Clark da adolescente, su Action Comics. E molto altro. Non ho intenzione di fermarmi.
Grazie mille per essere stato con noi, Mark… Ti auguriamo il meglio e speriamo di vederti presto in Italia!
È stato un piacere, e grazie per tutte le belle parole!
Mark Waid
Mark Waid è una delle figure più influenti e rispettate nel mondo del fumetto americano. Nato il 21 marzo 1962 a Hueytown, in Alabama, Waid ha coltivato sin da giovane una grande passione per i fumetti, che lo ha portato a intraprendere una carriera nell’editoria prima come redattore e poi come autore. Il suo nome è legato a numerose opere di rilievo, in particolare alla sua acclamata run su The Flash negli anni ’90, che ha ridefinito il personaggio di Wally West rendendolo uno degli eroi più amati dell’universo DC.
Ma è con Kingdom Come (1996), miniserie realizzata insieme ad Alex Ross, che Waid raggiunge un successo planetario: una visione epica e matura del futuro dell’universo DC, ancora oggi considerata una pietra miliare. Nel corso della sua carriera, ha scritto storie per quasi tutti i principali editori, contribuendo in modo determinante a titoli come Daredevil, Captain America, Fantastic Four e Superman: Birthright.
Dotato di una profonda conoscenza della storia del fumetto supereroistico e di una straordinaria capacità narrativa, Waid ha saputo rinnovare personaggi classici con rispetto e originalità. Oltre a essere un prolifico scrittore, ha anche ricoperto ruoli dirigenziali, come la cofondazione della casa editrice BOOM! Studios. Ancora oggi, Mark Waid continua a scrivere e influenzare nuove generazioni di lettori e autori.