Sulla mia pelle. Gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi – Recensione

Alessio Cremonini racconta l’ultima settimana di Stefano Cucchi, in un film duro, equilibrato. Necessario. Nel ruolo del protagonista un immenso Alessandro Borghi. Questa è la nostra recensione

Ogni singola pelle racconta una storia: ne narra il percorso, le sofferenze, i piaceri. Porta gli altri a farsi un’idea di ciò che siamo e di quel che – spesso, goffamente – tentiamo di celare. Non serve essere osservatori sopraffini per guardare oltre la pelle, eppure, la disarmante storia di Stefano Cucchi è una di quelle che – a distanza di anni – ci fa ancora interrogare su quale sia il limite che separa il buonsenso e la solidarietà tra esseri umani dall’abuso. Dal pregiudizio che si fa negligenza e poi morte.

All’inizio, la pelle di Stefano è quella di un trentenne sospeso – proprio come tutti gli altri – in un presente di cadute e riprese. D’inserimento nel mondo adulto della Roma in cui inizia a mordere la crisi, nell’Italia in cui l’analisi generazionale si ferma a termini come “X” o “millennials”, in cui la coesione sociale diviene una chimera e si diventa distratti, sempre più spesso cinici. A condividere il percorso con Stefano ci sono i genitori e la sorella Ilaria, una famiglia per bene, rispettosa delle leggi e fiduciosa nei confronti della giustizia.

Una notte però, dopo essere stato trovato in possesso di sostanze stupefacenti, Cucchi viene arrestato e la sua famiglia non lo mai più rivedrà vivo.

Ed è allora che la pelle di Stefano cambia. Cambia d’improvviso, in modo netto, proprio come dopo una “brutta caduta dalle scale”. Ogni livido, ogni vertebra lesionata diventa punto cardine della misteriosa piantina in cui si trasforma il corpo del giovane e che solo dopo la sua morte potrà essere rivelata, studiata, compianta. Eppure ognuno dei personaggi che gli si accosta negli ultimi giorni di vita sembra non interrogarsene, rigirando a lui e a lui soltanto l’onere della risposta. Il compito di confessare o tacere l’origine del pestaggio subito. E in questo silenzio/assenso – o silenzio/dissenso – serpeggiante, inizia a consumarsi una dinamica dell’assurdo che nemmeno anni di cronaca e processi riescono a ricostruire con certezza.

Dalla convalida dell’arresto alla morte, la famiglia di Stefano non riuscirà ad avere neanche notizie sulle sue condizioni di salute. Solo nell’obitorio dell’ospedale, davanti al corpo di un figlio che non c’è più, quella pelle tumefatta e contratta comincerà a raccontare loro una storia che nessuno in Italia dovrà e potrà ignorare. Una storia che Ilaria Cucchi e i suoi genitori hanno reso ragione di vita e che, a 9 anni dalla morte di Stefano, diviene un film.

“Sulla mia pelle”, diretto da Alessio Cremonini e distribuito da Lucky Red e Netflix, è stato presentato come film d’apertura della sezione “Orizzonti” alla 75° edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, conclusasi pochi giorni fa. Nei panni di Stefano Cucchi troviamo uno strepitoso Alessandro Borghi, delicato e misurato, capace di entrare totalmente nel personaggio senza mai trascendere su un piano viscerale. Con lui Jasmine Trinca nel ruolo di Ilaria Cucchi e, ancora, Max Tortora in quello del padre e Milvia Marigliano in quello della madre. Un cast decisamente indovinato per una pellicola che non si arroga il diritto di parteggiare o dare risposte ma che, con eleganza ed equilibrio, ricostruisce gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi attenendosi in gran parte alla estesa letteratura generata dagli archivi processuali.

Il film, nelle sale dal 12 settembre scorso (e disponibile su Netflix), oltre a raccogliere giudizi positivi da critica e pubblico, sta attirando su di sé polemiche da web per la decisione, presa da diversi centri sociali italiani, di proiettarlo gratuitamente e collettivamente, servendosi di un singolo abbonamento Netflix. Secondo gli organizzatori delle riuscitissime proiezioni, la storia di Stefano Cucchi deve raggiungere platee sempre più vaste per continuare ad essere un monito, per non venir dimenticata o insabbiata. Secondo la produzione, invece, proprio per poter raggiungere nuovo pubblico e non finire nel cono d’ombra spesso riservato alle storie “scomode” del nostro Paese, la pellicola va vista a pagamento, valorizzando il lavoro svolto e dandogli così modo di raggiungere vette sempre più alte. Non ultima, come si vocifera in queste ore, la partecipazione nella lista (corta) dei film italiani selezionabili per la prossima edizione degli Oscar.

È complesso analizzare un film come questo per il mero valore artistico. Il cinema però ha il potere di raccontare storie, siano esse inventate, conosciute o riportate alla luce dopo un lungo oblio. La ferita lasciata aperta dal Caso Cucchi ha ora un prodotto per essere tramandata, per restituirne il peso anche oltre i confini italiani. Così, il nostro invito è quello di recarvi al cinema (o di accedere a Netflix) per mettere insieme i pezzi di un puzzle complesso e doloroso che è ormai patrimonio collettivo della nostra storia.

 

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Madamedetourvel

Cinefila innata, politica per “sbaglio”, videomaker per vocazione. Sorvolando sui numerosi difetti, è grande sostenitrice dell’(auto)ironia, della cioccolata e delle sigarette fumate al buio. A metà del terzo giro di boa tenta di amare l’umanità, di non decomporsi e di trovare risposte a domande che – fortunatamente – continueranno a cambiare.

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