Capitan America – Una cronologia critica

Ripercorriamo la stupefacente vita editoriale di un personaggio tanto iconico quanto immortale: Capitan America! Dagli albori sino alle storie attuali, in una cronologia che vuole raccontare l’epopea di un eroe che rappresenta molto più della sua bandiera

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Senza contare la DC Comics – con Superman e Batman -, in Marvel solo lui e Spider-Man hanno un costume così iconico, riconoscibile e perfetto da non poter essere cambiato (o quantomeno, cambiato per sempre): parliamo ovviamente della Sentinella della Libertà, del Primo Vendicatore, del Vendicatore a Stelle e Strisce, di Capitan America. Che nonostante sia avvolto in una bandiera – quella americana, ovviamente – è una contraddizione vivente, perché in perenne lotta con uno Stato nel quale lui stesso non riconosce i valori che incarna.

UN EROE CONTRO ADOLF HITLER

(Capitan America Comics, # 1/50)

Nel 1940 lo sceneggiatore Joe Simon creò un bozzetto del “Super American”: nome subito scartato a favore del più libero Capitan America, insieme al suo side kick che si sarebbe chiamato Bucky come il giocatore di basket amico dello stesso autore Bucky Pierson. Non lo sapeva ancora ma aveva creato una Leggenda.

L’editore della Timely Comics, Martin Goodman, uomo dotato di un fiuto sopraffino per ciò che intercettava i piaceri del pubblico, gli commissionò subito una serie dedicata al super soldato i cui disegni furono affidati a Jack Kirby, fortemente voluto da Simon.

A conferma del fatto che Cap non fu mai, così come non lo è adesso, un mero strumento di propaganda piacione e furbetto, nonostante il primo numero di Captain America del 1940 vendette un milione di copie gli autori ricevettero numerose lettere di critiche, perché molti erano contrari a quello che Cap rappresentava. Il personaggio divenne ben presto il fumetto più venduto della Timely, chiudendo solo dieci anni dopo con il numero 75, e tre anni più tardi l’Atlas Comics tentò di riproporlo insieme alla Torcia Umana Originale e il Sub-Mariner, i primi eroi che già formavano quello che sarebbe stato il Marvel Universe. L’esperimento durò solo una manciata di numeri. Ma la storia era già scritta.

L’EROE NELL’ICEBERG

(Tales OF Suspense #59/99, Captain America prima serie # 100/300 )

La Timely era diventata definitivamente la Marvel, e nel 1961 aveva iniziato a colonizzare e definire l’immaginario pop con la testata Fantastic Four. Nel 1962 era uscito Spider-Man, nel 1963 The Avengers, L’Incredibile Hulk (che chiude dopo solo 6 numeri ma verrà subito ripreso) Thor su Journey Into Mistery: è nato l’universo Marvel.

Nel 1964, nel quarto episodio degli Avengers, è proprio Sub Mariner a trovare un uomo ibernato nei ghiacci eterni del Polo: sarà il gruppo composto da Iron Man, Thor, Ant-Man e Wasp a trovare dentro la lastra ghiacciata proprio Capitan America, l’eroe dimenticato scomparso subito dopo la seconda guerra mondiale. Lentamente, l’eroe conquista il pubblico: e intanto, Lee e Kirby operano un’abile operazione di ret-con inserendo nella storia “ufficiale” tutto quanto successo al personaggio nei primi anni della Timely e della Atlas (viene così giustificata anche a posteriori l’assenza del suo compagno di guerra, il giovane sidekick Bucky Barnes, ufficialmente morto in un’operazione contro il barone Helmut Zemo.

Nel 1968 le storie a fumetti di Cap, realizzate da Lee e Kirby, iniziarono ad alternarsi su Tales Of Suspense dal # 59, finchè nel # 100 (SuperEroi Classic # 84 – Capitan America 5, RCS Quotidiani) guadagnò il titolo.

Le storie del Capitano sull’antologico erano, ovviamente, una semplice coazione a ripetere: ma già nel carattere del personaggio su Avengers e pian piano sulla sua testata (in maniera prorompente dal 100 in poi) si iniziava ad intravedere tutta la sua potenzialità narrativa.

Su Captain America poi Kirby sembra scatenato, trovandosi a suo agio come forse solo su Fantastic Four, creava tavole di una potenza rara ed immensa. Un uomo fuori dal tempo, cresciuto per incarnare certi ideali che si ritrova a doverli difendere a volte dallo stesso presente. Ed è sul mensile omonimo che Steve Rogers appare sempre più tormentato: certo le situazioni amorose erano ricalcate una sull’altra, all’epoca (Scott Summers con Jean Grey, Tony Stark con Pepper Potts, Matt Murdock con Karen Page: uomini che avevano paura di non essere ricambiati e/o non volevano mettere in pericolo le donne che amavano), ma in quella del soldato e di Sharon Carter c’era un qualcosa di romantico e insieme drammatico che la rendeva particolarmente viva. Probabilmente dovuto al fatto che la stessa Carter era uno dei personaggi femminili più riusciti dell’epoca, meno “donzella” più di quanto già non lo fossero le donne della Marvel.

È però nel 1972 che la testata Captain America entra nel suo vivo per la prima volta: è il giovane Steve Englehart che succede all’acerbo Gary Friedrich il quale aveva solo arricchito il cast di comprimari. Ed è quindi Englehart che introduce le prime avvisaglie dei cortocircuiti morali ed umani che caratterizzeranno la testata negli anni a venire: le tavole sono un tripudio, e passano da Kirby a Gene Colan fino a John Romita Sr.

Solo con Sal Buscema però il mensile trova una sua regolarità di segno, non rivoluzionario e neanche particolarmente facile, il tratto del fratello del più noto John riesce però a centrare alla perfezione le atmosfere ruvide e spigolose nelle trame dell’autore. E probabilmente solo lui, all’epoca, avrebbe potuto descrivere i tormenti dell’uomo che si legavano ai tormenti del soldato, la maschera che nascondeva il dolore, e le sofferenze di chi per fare i conti con il proprio passato deve lottare all’ultimo sangue con un suo alter ego.

Sono le storie (con la testata che porta anche il nome di Falcon nel titolo) che portano all’improvviso la sentinella della libertà nei tumultuosi anni ’70: Englehart resterà sulla testata per ben quattro anni, decretandone il successo, legando il suo nome e quello della Marvel a storie ancora oggi efficaci e appassionanti raccontando dei tumulti razziali per le strade di New York, dello scandalo Watergate sotto mentite spoglie (leggi, L’Impero Segreto, Capitan America # 173, in Italia su Captain America Marvel Masteworks # 8, ed. Panini Comics), o ancora il redivivo Capitan America degli anni ’50 editorialmente pubblicato dalla Atlas che negli albi Marvel diventa un… altro Cap (Captain America # 175, in Italia su Super Eroi Classic # 175 – Capitan America 15, RCS Quotidiani); arrivando ad una delle saghe più importanti dal punto di vista narrativo, ovvero la leggendaria Saga di Nomad, nella quale Steve Rogers abbandona il costume per divergenze con lo Stato americano e decide di chiamarsi Nomad (Collezione Gold- Capitan America: Nomad, ed. Panini Comics).

Quattro anni intensi, finchè nel 1976 a sorpresa, torna il Re.

Dopo una contestata parentesi in DC, dove era “scappato” dopo un litigio perché la casa editrice non gli permetteva di avere il controllo sui suoi disegni: voleva inoltre affrancarsi dal binomio con Stan Lee che, a suo dire, metteva in ombra la sua arte.

La questione si innesta in un dissidio che va avanti da sempre e che probabilmente è sopravvissuto ai suoi protagonisti: il dittongo Lee-Kirby era inscindibile, e la qualità delle loro creazioni proveniva proprio dalla loro unione che faceva la forza. Ne è riprova il fatto che né Kirby alla DC (come era nelle sue intenzioni) né in futuro Lee alla Marvel riuscirono a fare qualcosa di non tanto rivoluzionario, ma anche solo di qualità come le loro storie degli anni ’60.

In DC, il Re aveva lavorato senza molto successo su progetti creator owned come Mr Miracle, New Gods e Forever People: il suo Quarto Mondo si ricorda ancora oggi per la sua incredibile espressività grafica e non certo per i testi. Ad ogni modo, Captain America # 195/214 (Marvel Omnibus: Capitan America di Jack Kirby, ed. Panini Comics) rappresenta una manciata di episodi non particolarmente significativi: oltre ad un’inventiva un po’ stanca, si aggiunge la tipica pesantezza nei dialoghi che non erano stemperati dall’innegabile verve di Lee. A livello narrativo, Kirby oltretutto non si curò minimamente di quanto accaduto in sua assenza, riprese solo Sam Wilson e Sharon Carter come personaggi, dimenticando tutto il resto. La differenza con gli episodi precedenti di Englehart, pieni di rivolte studentesche e agganci alla realtà contemporanea più drammatica, si avvertì decisamente: Kirby era estraneo ad ogni tipo di realtà giovanile, e il suo ciclo su Cap sembra una cosa a sé stante, con molta azione e pochissima (niente) introspezione. Unica traccia del suo passaggio, la creazione di Armin Zola. Con il numero 214 Kirby lascia mestamente le pagine dell’albo, con la consapevolezza (lui e i lettori) di non avere nessuna profondità di scrittura.

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I tre anni successivi (#215/240) vedono un susseguirsi di diversi scrittori senza soluzione di continuità: tra alti e bassi, sfilano autori anche di statura (come Jim Starlin o Roy Thomas) ma nessuno crea continuità e nessuno scrive niente di memorabile con l’unica continuità grafica di Sal Buscema, contribuendo a rendere Captain America una testata di second’ordine per la fine degli anni ’70 e io primissimi anni ’80.

Solo nel 1980, con il # 240, si intravede una luce: arriva Roger Stern e resta un annetto, contando tra i disegnatori un certo John Byrne: basta poco e la testata inizia a volare, grazie a trame che si collegano di nuovo alla realtà degli anni ’80 (memorabile Cap For President! sul # 250, Marvel Gold # 12 – Captain America: Ricordi di guerra, ed. Panini Comics) ma soprattutto al segno chiaro, pulito, classico e insieme modernissimo di Byrne.

Che purtroppo lascia dopo pochi mesi, intensissimi. Altro periodo di stallo (scrivono Bill Mantlo, Chris Claremont, Michael Barr, Al Milgrom) finchè la testata cambia drasticamente: con il # 260 arriva il bravissimo John Marc De Matteis, probabilmente uno degli autori più adatti e conformi al Capitano, e resta per tre incredibili anni, scrivendo storie bellissime a volte aiutato dalla matita fatata di Mike Zeck. Da ricordare, sottolineare e recuperare soprattutto la conclusione della run: una minisaga nella saga, lunghissima (# 290/300, raccolta in Marvel Omnibus # 75 – Capitan America – J.M. De Matteis e Mike Zeck, Panini Comics), insospettabilmente moderna, cruda e violenta, che racconta la storia definitiva sul Teschio Rosso.

Das Ende è il # 300 di anniversario, ed è uno dei più belli della storia del vendicatore a stelle e strisce: se solo ai disegni fosse rimasto Zeck, o quantomeno qualcuno meno legnoso e inespressivo di Paul Neary, oggi il ciclo sarebbe una pietra miliare.

UN EROE LUNGO LE STRADE DELL’AMERICA

(Captain America prima serie, #301/454)

Mark Gruenwald è uno dei numi tutelari del fumetto. Fornito di una competenza enciclopedica della storia della Marvel, supervisionò le testate vendicative degli Avengers e di Thor, ma è su Capitan America che legò il suo nome, in un lunghissimo ciclo durato ben undici anni nei quali fornì la versione probabilmente definitiva del personaggio, sopra la quale nomi come Nick Spencer e Ed Brubaker costruirono le loro (ottime) declinazioni autoriali.

Nella sua lunghissima, acclamata gestione, Capitan America attraversò in lungo e in largo gli Stati Uniti, affrontandone le contraddizioni e le difficoltà, toccando con mano la provincia e vivendo in prima persone i suoi dolori. Anche qui, se alle tavole la Marvel avesse messo un illustratore più abile dei vari Neary, Tom Morgan e Ron Lim che si succedettero, probabilmente la run sarebbe avrebbe avuto più onori di quanti ne ha avuto e probabilmente ne meritava in effetti. Certo va detto che passarono da lì anche Kieron Dwyer e Rick Levins, però fin troppo acerbi: ma il Cap di Gruenwald è l’incarnazione del Sogno Americano, capace di affermarsi e superare ogni difficoltà con le proprie forze esprimendo il proprio potenziale. Non per niente, in questi mesi Steve Rogers appare poco e niente, mettendo in chiaro che probabilmente (in un percorso psicologico similare a quello di Batman/Bruce Wayne, di cui Cap rappresenta l’esatto riflesso, lo specchio oscuro) la maschera indossata è proprio quella di Rogers, e l’identità è quella di Cap.

Il profilo è quello del blockbuster: poca psicologia, molto approfondimento politico, tanta azione e soprattutto una marea di new entry che faranno la storia del Discobolo più famoso dei fumetti: Crossbones, Diamante, lo Spezzabandiera, la Squadra dei Serpenti, la milizia di estrema destra dei Cani da Guardia, John Walker (poi U.S.Agent), sono alcuni dei tantissimi personaggi creati dal buon Mark che ancora oggi hanno un peso nelle trame della testata, e che addirittura sono diventati parte fondante della mitologia di Capitan America. Che con Gruenwald vive una vera e propria rinascita, chiarendo il suo posto e il suo senso nel Marvel Universe: non solo con tutta l’azione condensata nelle pagine, non solo con le preoccupazioni dell’autore che si riflettono nelle storie, ma anche e soprattutto nelle luci e ombre del Sogno Americano che fanno vivere all’eroe drammi come quello del Nuovo Capitan America (# 332/336, su Speciale Capitan America 2, ed. Star Comics) o la bellissima saga Street of Poison (# 372/378, Marvel Extra 7, ed. Marvel Italia).

È proprio con Gruenwald, infine, che Captain America assume quella identità autoriale definitiva che lo contraddistinguerà negli anni a venire: continuando con il suo immediato successore, quel Mark Waid che si insediò con il #444 e che insieme al bravissimo Ron Garney (aiutato poi da Andy Kubert) condusse Cap nell’era adulta.

La run di Gruenwald, come detto più volte sopra, durò una decade: una durata impensabile per gli standard di oggi, ma che anche allora mise a dura prova il pubblico e il suo autore, che infatti sulle ultime battute iniziò a vacillare con l’ispirazione. Cose come il Cap-Wolf o come la pessima Ultimi Bagliori di Un Crepuscolo (# 442/443, su Capitan America & Thor 23/24, ed. Marvel Italia): una storia che ebbe l’unico merito di concludersi con la morte del protagonista, dando un senso al lungo ciclo ma soprattutto dare l’assist all’autore successivo. Waid partì infatti col botto con la sua splendida Hope & Glory sul # 444 (Marvel Omnibus # 118 – Capitan America di Mark Waid, Ron Garney e Andy Kubert, ed. Panini Comics), una specie di elegia muscolare e mai rassegnata che dà lo start ad un periodo di rinnovamento grafico e di testi. La scrittura di Waid è profondamente classica ma insieme moderna nel ritmo e nella scansione della storia: tornano poi sia Sharon Carter che il Teschio Rosso nelle loro versioni definitive per i nuovi tempi, accompagnando Cap in una storyline spionistica ad altissima tensione emotiva. Purtroppo Waid ebbe il tempo di scrivere una manciata di numeri, fino al # 454: era arrivato il ciclone Heroes Reborn.

UN EROE (RI)NATO

(Captain America, seconda serie # 1/12, terza serie # 1/50, quarta serie # 1/32)

Nel 1996 la Marvel fu costretta a dichiarare bancarotta: la crisi finanziaria in cui versava l’azienda fu risanata da Ike Perlmutter, che riuscì a prendere il controllo dell’azienda facendola risollevare e trasformandola pian piano nel colosso dell’intrattenimento che è oggi.

Tra il 1989 e il 1993 i comics avevano avuto un’espansione clamorosa grazie al collezionismo esasperato, spinto dalle copertine variant e le successive speculazioni. Nasce intanto l’Image Comics, le vendite nelle edicole erano dominate dagli X-Men (anche grazie a X-Men # 1, vendutissimo anche per le suddette variant) e la distribuzione era al caos: era inevitabile che la bolla speculativa esplodesse, causando una tragica flessione delle vendite che portò prima al crossover Marvel VS DC delle due case editrici unite, poi ad uno sforzo produttivo della Marvel stessa che, per uscire dal pantano di vendite in cui ristagnavano la maggior parte delle testate (alcune abbandonate a sé stesse, come Avengers dopo la bomba Harras tralasciate nelle mani di Kavanagh e della deludente Traversata– altre invece perfettamente funzionanti come appunto Captain America), affidò “in appalto” le sue quattro serie storiche a disegnatori esterni: Jim Lee prese Fantastic Four, Whilce Portacio Iron Man, Rob Liefeld Captain America e Avengers. L’operazione, denominata Heroes Reborn, fu però un disastro totale: dopo l’exploit iniziale le testate iniziarono ad annaspare, Liefeld e Lee lavorando “su commissione” scrissero storie che per reinventare la tradizione tradirono lo spirito originario e deragliarono completamente; le vendite barcollarono. Il contratto di Liefeld allora vene rescisso, Jim Lee sopravvisse a fatica fino al # 12, l’operazione fu a conti fatti un disastro totale, con gli uffici della Marvel in subbuglio e i team editoriali precedenti in subbuglio e in lotta con la casa editrice per essersi visti levare le testate affidandole ad autori “esterni”. Era tempo di correre ai ripari: le quattro testate storiche furono allora affidate a nuovi team creativi, sotto l’etichetta Heroes Return.

Prima di Reborn, narrativamente, l’evento Onslaught pensato da Scott Lobdell per le testate mutanti fu allargato fino a comprendere anche le altre: in questo modo, Onslaught (versione malvagia e corrotta del prof. Xavier) ebbe modo di “uccidere” gli Avengers che in realtà erano stati trasportati dal potentissimo Franklin Richards in una sorta di universo tascabile creato ad hoc proprio dal ragazzino: e fu proprio in quell’universo parallelo (cd “tascabile”) che gli Eroi vissero le avventure “fuori continuity” dell’etichetta Heroes Reborn.

La testata dello scudiero fu forse quella che finì peggio: Liefeld, autore pieno di idee innovative, un entusiasta con poco talento ma molta iniziativa, restituì forse la peggiore interpretazione di Cap mai vista, senza dire dei disegni assolutamente inadeguati, e a niente servì neanche l’intervento di James Robinson ai testi.

Con Heroes Return, tutti gli eroi finalmente tornarono quindi nel mondo “reale” (Terra 616, la nostra per intenderci): fu questo l’espediente narrativo utilizzato dagli autori per far ripartire nuovamente da 1 le testate che annaspavano. In questo modo, a furor di popolo, Captain America fu affidato a chi, prima del terremoto editoriale e finanziario, lo stava scrivendo con risultati egregi: perciò Waid tornò sulla serie continuando a scrivere episodi eccellenti, nuovamente coadiuvato dalle matite di Garney. Non per niente, l’episodio del (terzo) numero 1 si intitolò “The Return Of Steve Rogers”.

La terza serie dedicata al Capitano andrà avanti per 23 numeri di altissimo livello firmati dall’autore di Kingdom Come, che dal 25 passa il testimone a Dan Jurgens, che aveva dato ottima prova di sé sia sulla testata della Distinta Concorrenza Superman, ideando e realizzando l’epocale Morte Di Superman, sia sul quasi contemporaneo Sensational Spider-Man, la serie che sostituiva Web Of Spider-Man e che si ritrovò coinvolta dell’altrettanto epocale Saga Del Clone ragnesca. Jurgens riporterà tutto sui binari di una (bella) serie a metà tra lo spionaggio, il politico e il supereroistico, senza però eguagliare le altezze di Waid. Che a tutt’oggi resta probabilmente l’autore che ha portato Capitan America nell’era moderna senza tradirne gli ideali.

Tra la terza serie e la quarta dedicate ad uno dei personaggi più riconoscibili della Marvel e dell’intero pantheon pop si pone la tragedia delle Torri Gemelle: un’apocalisse umana, culturale, sociale e politica che non poteva travolgere una delle serie a fumetti più politiche della storia.

Per questo, Captain America riparte dopo qualche mese il #50 della sua terza scritto da Jurgens con una minisaga (Marvel Miniserie # 48 – Capitan America: L’avversario, voll. 1/3, ed. Marvel Italia) scritta da John Ney Rieber e disegnata da John Cassaday: un’avventura drammatica, lacerante, tesissima e dura che affronta a viso aperto la questione del terrorismo, e che anche essendo -forse- fin troppo contemporanea all’accaduto riesce ad avere la giusta distanza e a non suonare per nulla retorica. Dopo Rieber arrivano l’ottimo Chuck Austen (Marvel Miniserie # 52/54, ed. Marvel Italia), Dave Gibbons, Robert Morales e Robert Kirkman (Thor #61/76, ed. Marvel Italia), e fino alla chiusura con il # 32 si trasforma in una specie di antologica con un lievissimo senso della continuity, e sarà il futuro creatore di The Walking Dead a traghettare il Vendicatore fino all’evento Avengers Disassembled, saga che riazzera il cosmo narrativo degli Avengers e tutte le serie collegate.

La lezione di Englehart, Gruenwald e soprattutto Waid è però ormai un cardine, e Captain America conferma la vocazione ad essere il personaggio, e il mensile, più dichiaratamente, drammaticamente politico.

Ma soprattutto, a dispetto dell’apparenza retorica, tra le serie più aderenti alla realtà, intense e belle dell’intera Marvel.

UN EROE FUORI DAL TEMPO

(Captain America quinta serie # 1/50, prima serie # 600/640. Captain America: Reborn # 1/6, Captain America sesta serie # 1/50, Captain America settima serie # 1/50, All New Captain America # 1/7, Captain America: Sam Wilson # 1/24, Captain America: Steve Rogers)

Christopher Priest nel 2004 firma una miniserie di 14 numeri, muscolare e ipertrofica, che riporta Falcon come comprimario di testata: un ponte tra il Cap pre e post Avengers Disassembled. dopo la grande saga vendicativa, niente è più uguale: per Cap inizia quindi un periodo dorato che riassume tutto quanto è stato l’eroe nei decenni passati, alzando l’asticella del dramma, dell’intrigo e della qualità in maniera esponenziale.

Arriva infatti ai testi il pluripremiato Ed Brubaker, autore dalla sensibilità, spiccatamente, particolarmente noir che aveva già lavorato su Batman, e che sul mensile Marvel crea una vera e propria epopea leggendaria, rimasta come uno dei capitoli più belli e affascinanti del mondo del fumetto mainstream. Tutto il (lungo) ciclo di Bru (146 incredibili storie, su 100% Marvel: Capitan America – Ed Brubaker Collection, voll. 1/13, ed. Panini Comics) durerà dal 2005 al 2012, in una delle sequenze in assoluto più appassionanti ed importanti della Marvel.

La storia parte dalla 5^ serie della collana Captain America, che porta la firma ai disegni del bravissimo Steve Epting (grandioso illustratore che era esploso proprio sulle pagine dei meravigliosi e oscuri Avengers di Bob Harras) e che dà il via ad una trama ad ampissimo respiro, che conclude la sua prima tappa nel 2007, quando alla fine della Civil War (Grandi Eventi Marvel: Civil War, Ed. Panini Comics) Capitan America viene ucciso (La Morte di Capitan America, Marvel Miniserie # 84/86, ed. Panini Comics) da un colpo di pistola sulle scale del Campidoglio, davanti gli occhi esterrefatti dell’eterno amore Sharon Carter.

A questo punto inizia una grandiosa ed enigmatica detection che Brubaker intesse insieme alla trama del Soldato D’Inverno -una sua geniale ideazione: Bucky Barnes redivivo e trasformato in un letale killer dal KGB russo- e al ritorno del Teschio Rosso sotto le mentite spoglie del diabolico imprenditore Alexander Luskin. Il secondo arco narrativo si conclude nel 2009 con il ritorno del nostro protagonista sulla miniserie Reborn disegnata dalla superstar Bryan Hitch (Marvel Collection. Capitan America: Rinato, ed. Panini Comics), per ripartire subito dopo con le conseguenze.

Quelli di Brubaker sono sette anni con fortissime suggestioni tra il noir e la spy-story, impregnati del clima di tensione post-11 settembre, e con la forza centripeta di Brubaker che ha avuto la capacità e l’intelligenza di prendere tutti gli elementi e i personaggi classici delle storie del Capitano per proiettarli nel presente e oltre.

Ma anche le cose belle devono finire: e il Cap di Brubaker si conclude nel 2013, quando la Marvel decide di entrare nell’era Marvel NOW!, una serie di refresh periodici delle collane che mantenevano la continuità ma ripartivano con un nuovo numero 1 ogni cambio di team creativo, seguendo un po’ le regole delle stagioni seriali televisive. Il discobolo a stelle e strisce è stato uno degli eroi con il miglior trattamento: a scrivere le sue rinnovate avventure arriva infatti il bravo Rick Remender, che con una lunga e avvincente saga cambia radicalmente lo status quo di Steve.

Remender avrebbe potuto gestire la pericolosissima situazione in cui era (dover fronteggiare i fan che ormai amavano la -vincente- versione del personaggio di Brubaker) copiando la precedente gestione; decise invece un repentino cambio di status, abbandonando l’hard boiled e la spy story e immergendo Cap in una storia dai contorni inediti per lui, ovvero la sci-fi, spiazzando i lettori con scenari insoliti e un intrigo misterioso quanto basta. Ai disegni, prima un John Romita Jr ispirato come poche altre volte riecheggia le squadrature kirbyane, dopo Carlos Pacheco con un segno pulito e dinamico che segna il ritorno di Cap nella nostra realtà. Perché in Castaway in the Dimension Z!, titolo del primo arco narrativo (Marvel Collection – Capitan America Perso Nella Dimensione Z!, ed. Panini Comics), si ritrova perduto in un pianeta sconosciuto; mentre in Who Is The New Captain America? (Marvel Collection – Chi è il nuovo Capitan America?, ed. Panini Comics) l’ultimo, dovrà affrontare una delle scelte più difficili della sua vita.

Nella Dimensione Z il tempo scorre più velocemente che nella realtà, e il ritorno alla realtà vedrà sia Steve che l’amata Sharon, accorsa in suo aiuto, invecchiati di diversi decenni. Non solo: nel # 25 della serie il protagonista sarà costretto a dover cedere lo scudo e il vestito di Capitan America a colui che reputa essere il suo erede. La scelta ricadrà inevitabilmente sull’amico di diverse avventure, Sam Wilson. Che dal successivo # 1 sarà quindi il primo eroe di colore a vestire la maschera ed essere l’unico Capitan America. Nel gennaio del 2015 esce quindi il # 1 di All New Captain America. Ai testi sempre Remender, ai pennelli uno stellare Stuart Immonen, che proprio su questa testata farà un percorso di eccellenza.

La serie ha un solo arco narrativo, L’ascesa Dell’Hydra (Marvel Collection – Il Nuovissimo Capitan America, ed. Panini Comics), e vede Sam impegnato insieme al nuovo Nomad (figlioccio di Cap e Sharon, un ragazzino cresciuto nella Dimensione Z che Steve ha riportato con sé sulla Terra) in un complotto dove l’Hydra mostra di avere più di un infiltrato nello Shield e tra gli eroi. La storia prosegue poi in Captain America: Sam Wilson, 24 numeri scritti da Nick Spencer che diventa così lo scrittore ufficiale della serie.

Che cerca una sintesi fra la politica di Brubaker e l’avventura supereroistica di Remender, trovando una terza via: Sam Wilson è un Cap che si rivolge veramente ai più deboli, incarnando gli ideali di giustizia e uguaglianza in un periodo storico -siamo nell’era Trump- dove le tensioni razziali, le questioni etniche, i problemi sociali arrivano ad un punto di non ritorno, esplodendo con violenza e rabbia. Manca poco al #black lives matter, e Captain America: Sam Wilson è la testata perfetta per raccontare l’America di oggi attraverso gli occhi di un eroe che incredibilmente viene inviso dallo Stato.

Si apre così uno dei periodi più controversi della storia della testata, con avventure che hanno fatto parlare di sé non solo le testate di settore ma anche i telegiornali nazionali. Specialmente negli States, la portata ideologica di Captain America: Sam Wilson è di quelle notevoli.

Prima di tutto perché specialmente in America, terra di libertà, il colore della pelle di un simbolo come Cap non è andato giù a diversi lettori. Il cambio radicale avvenuto in concomitanza con l’evento Secret Wars (con un Hulk sudcoreano, un Thor donna e appunto un Cap nero) ha reso le storie della Marvel ancora più politicizzate di quanto lo fossero mai state in passato, cosa che certo ha reso Sam Wilson una delle serie, per i testi, più interessanti della casa editrice. Spencer, che non a caso ha un passato di militanza nel partito Democratico, ha fin da subito preso di petto una serie di tematiche fortissime e utilizzato il gap temporale post-Secret ars per creare una frattura di vedute tra Steve Rogers stesso (allora invecchiato ma ancora mentalmente sé stesso) e Sam Wilson. Sul piano strettamente narrativo, la frattura si sana quando Steve ringiovanisce (nella testata Captain America: Steve Rogers, che parte con il # 1 quando Sam Wilson è al # 9, e scritta sempre da Nick): ma il giovane eroe alato continua a portare lo scudo (nonostante il trend topic #takebacktheshield), battendosi contro il traffico di immigrati, la società dei serpenti trasformata in corporazione quasi intoccabile, la repressione poliziesca delle comunità nere. E mentre Spencer usa benissimo l’equilibrio tra azione e dramma, usando anche intermezzi esilaranti -come dove si strizza l’occhio all’improbabile Cap-Wolf di gruenwaldiana memoria-, ai pennelli Daniel Acuña compie un lavoro meticoloso e, come già in altre sue prove precedenti, si dedica in particolare alla cura dell’espressività dei volti, risultando ugualmente convincente nella colorazione.

Se allora da una parte le proteste dei lettori hanno giocato un ruolo non indifferente nella scelta di Alonso, allora editor-in-chef della Marvel, nella chiusura della trama dedicata a Wilson, con Steve che riprende lo scudo: dall’altra, il contestuale ringiovanimento di Steve avvicina la serie al prossimo cross-over, Secret Empire. Che continua a rendere Captain America una delle testate più discusse del momento.

Così come Dan Slott con il suo Superior Spider-Man (storie nelle quali il dottor Octopus diventa Spidey, in poche parole), anche Nick Spencer ha delle grane grosse con i lettori per quello che accade nel n# 1 della citata Captain America: Steve Rogers, uno degli albi con il finale shock più sconvolgente degli ultimi anni.

La trama.

Flashback. Sarah Rogers, madre del piccolo Steve, viene avvicinata da una donna che la difende dal marito alcolizzato che l’aveva colpita facendola cadere a terra. La donna si presenta con il nome di Elisa Sinclair, la invita a cena in un bel ristorante, trascorre l’intera giornata insieme a lei e poi gli rivela essere una addetta al reclutamento dell’Hydra.

Presente. Steve Rogers è tornato di nuovo giovane -grazie all’aiuto di KOBIK, il cubo cosmico senziente con le fattezze di una bambina- riprendendo a vestire i panni di Capitan America, ma con un nuovo scudo, lasciando quello classico nelle mani dell’amico Sam Wilson. L’eroe a stelle e strisce è subito tornato in azione ritrovandosi a combattere contro una nuova branca dell’Hydra guidata dal Teschio Rosso che non si fa scrupoli a reclutare giovani sbandati da usare come bombe umane in attentati terroristici. Coadiuvato da Sharon Carter, rimasta però più vecchia di lui dopo l’avventura nella Dimensione Z, Capitan America ferma un gruppo di agenti dell’Hydra che aveva occupato un treno non riuscendo però a evitare la morte di un giovane plagiato dall’organizzazione che decide di farsi saltare in aria. Tornato nell’elivelivolo dello SHIELD, Steve si riposa mentre Rick Jones -diventato il suo fidato esperto informatico- racconta le sue avventure del passato con Capitan America a Jack Flag e Free Spirit, le due giovani reclute della squadra. Intanto Sharon ha una piccata discussione con Maria Hill, la direttrice dello SHIELD, in merito al suo coinvolgimento a Pleasant Hill (la cittadina che lo Shield ha usato per fare il lavaggio del cervello a diversi villain trasformandoli in cittadini obbedienti e smemorati). Prima che la discussione si accenda, Steve entra nella stanza riferendo di aver individuato il Barone Zemo. Intanto nell’isola/nazione di Bagalia, il Barone Zemo ha reclutato alcuni criminali incontrati a Pleasant Hill per formare una Hydra opposta a quella dei Teschio Rosso. Capitan America interviene insieme a Free Spirit e Jack Flag cercando di recuperare il dott. Erik Selvig prigioniero di Zemo. Mentre Free Spirit si occupa di Plantman, Flyer Tiger e Firebrand, Jack Flag soccorre il nostro eroe salendo a bado dell’aereo a ultrasuoni con il quale Zemo stava cercando di fuggire con il prigioniero. Inaspettatamente Capitan America afferra Jack Flag lanciandolo nel vuoto e poi rivolgendosi al dottore ancora imbavagliato dice “Hail Hydra”.

L’albo, la cui vignetta finale ha praticamente fatto il giro del mondo, è il primo passo di avvicinamento a Secret Empire, probabilmente il crossover più ambizioso della Marvel in senso tematico, e il più dark similmente al Dark Reign di qualche anno prima.

Basta una sola frase, quel sinistro Hail Hydra!, a cambiare il destino di uno scrittore e il volto di una testata.  Che quindi, oltre a continuare quel percorso qualitativo eccellente intrapreso con Waid negli anni ’90, decide di offrire anche qualcosa di decisamente nuovo, innovativo e coraggioso.

Ovviamente, come viene spiegato nel # 2, il trucco c’è, ma non si vede.

Ma si poteva intuire, e in qualche modo perfino andarci vicino: la colpa è di Kobik. Ora, nel multiverso Marvel il Cubo Cosmico ha il potere di trasformare in realtà ogni desiderio di chi lo possiede. Cioè ha il potere di alterare la realtà. In Captain America: Steve Rogers #2 si scopre che attraverso un intricatissimo piano il Teschio Rosso ha fatto sì che nel momento in cui Kobik ha fatto ritornare giovane Steve (visto durante Avengers: Standoff, su Marvel Collection # 146, ed. Panini Comics) ha alterato i suoi ricordi facendogli credere di essere da sempre un’agente segreto dell’Hydra. Perchè? Perchè tra il Teschio Rosso e Kobik si è instaurato uno strano legame padre-figlia che ha fatto sì che lei veda nel modello Hydra (ovvero totale sottomissione alla causa) l’unica soluzione ai mali che affliggono il mondo.

UN EROE SEGRETO PER UN IMPERO SEGRETO (Secret Empire # 1/12, Captain America 8^ serie 695/704, 9^ serie # 1/24 in corso)

Il cambiamento è alla base dei rapporti umani.

Il cambiamento regola qualunque tipo di forma vivente o istituzione, abbraccia la cultura e la politica, la società e i singoli individui.

E il cambiamento è alla base culturale ed editoriale della Marvel.

La Marvel è cambiata radicalmente, dalle sue origini: e specialmente negli ultimi dieci anni, ha affrontato cambiamenti vertiginosi nel giro di pochissimi mesi.

In particolare, il Marvel NOW! ha vissuto cambiamenti e rivoluzioni sostanziali, in un percorso di avvicinamento alla realtà differenziata tra etnie e gender. La gestione di Nick Spencer di cui abbiamo parlato poco fa è stata probabilmente una delle più rivoluzionarie dell’intero piano editoriale, così come Capitan America è l’eroe più rappresentativo e sentito del popolo americano, trascendendo quindi i limiti di un eroe di carta e diventando un simbolo sociale e culturale, conseguentemente incarnando inevitabilmente tutte le contraddizioni del popolo che rappresenta e tutte le diversità dalle altre culture.

In tutto questo, l’impero segreto di un irriconoscibile e malvagio Steve Rogers, diventato Capo Supremo dell’Hydra, tra alti e bassi ha colto nel segno: rivoluzionato lo status quo della Casa delle Idee. Alex Alonso, editor della Marvel fino al 2017 (anno in cui è subentrato C. B. Cebulski), ha operato scelte radicali e per alcuni ha snaturato lo spirito originale degli eroi che compongono l’immaginario creato da Stan Lee e oramai divenuto un vero e proprio epos moderno anche grazie ai film su grande schermo. Ma la Marvel di Alonso non ha fatto altro che fare del cambiamento la sua filosofia principale, amalgamandosi spesso e volentieri con l’attualità e concependo giustamente il fumetto americano come un riflesso della realtà sociale in cui versa il popolo americano, a prescindere da tutte le guerre cosmiche e invasioni aliene del caso. Non per nulla, i tre principali maxi-eventi di quel periodo sono stati incentrati su Cap, e sono stati Pleasant Hill, Civil War II e Secret Empire. Tre macro storie che hanno giocato, mettendo Steve Rogers e Sam Wilson nel mezzo, sulla dicotomia tra bene e male applicato al metodo della giustizia preventiva. Secret Empire, nello specifico, ha nella politica il suo snodo centrale, con il Cap Hydra che prende il controllo del governo e lo assoggetta alla presa nazista. Spencer, Alonso e gli altri hanno imbastito un crudele e distopico ritratto di una realtà volontariamente piegata al suo aguzzino, insomma un mondo fittizio ma che strizza l’occhio all’attualità reale, dove in Europa e in America soffiano preoccupanti venti totalitari, dove la propaganda e i mass-media trasformano spietati assolutisti in brillanti signori affascinanti. Tratteggiando quindi un popolo (non più statunitense, ma mondiale) senza più punti di riferimento, senza più eroi, asservito alla crudeltà e alla follia.

A conti fatti, la gestione di Spencer ha lasciato un immaginario altamente suggestivo, una riscrittura lodevole e segnante di Capitan America, eroe del quale adesso abbiamo due versioni: una nuovamente buona, classica, riportata indietro da Kobik e Bucky, dai recessi nascosti dell’anima di Cap Hydra; e una cattiva, rinchiusa in una prigione che lo conterrà a lungo (?).

Ed ecco che ciclicamente, dopo l’abbandono di Spencer, la testata reclama uno scrittore che non abbassi la guardia e tenga alto il segno distintivo di una testata che con Waid, Brubaker, Remender e Spencer si è mantenuta su livelli altissimi senza mai sganciarsi dalla realtà.

Ed ecco che allora, con il fresh start del 2019, la Marvel schiera un giornalista con un curriculum letterario e che ha vinto l’Eisner per la sua miniserie su Black Panther: Ta-Nehisi Coates, scrittore attivista, corrispondente nazionale presso The Atlantic dove ha scritto di questioni culturali, sociali e politiche, in particolare per quanto riguarda gli afroamericani e la supremazia bianca.

E sin dai primi numeri, è chiaro come Coates sia rimasto profondamente affascinato dalla versione del personaggio creata da Spencer: il suo corso, iniziato con il ciclo Winters in America (Marvel Collection: Capitan America – Inverno In America, ed. Panini Comics), parte dalla precisa volontà di approfondire le conseguenze del Cap Hydra. Perché Spencer ha avuto il coraggio di ribaltare un’icona, e Coates è rimasto colpito dalle storie lanciandosi in una profonda riflessione sul Sogno Americano. Ha ancora senso parlare di Sogno? L’idea fondante di democrazia tra le più influenti del pianeta (quella statunitense) è ancora valida o risulta superata dagli avvenimenti che ogni giorno mettono in discussione il messaggio dei Padri Fondatori?

Coates approccia l’argomento, delicato e sottile, con intelligenza, riuscendo ad ampliare il raggio d’azione delle implicazioni di Secret Empire: lo scrittore punta il focus anche sulla relazione fra Rogers e Sharon, ora anziana dopo la Dimensione Z. e attraverso l’uomo pone domande importanti al lettore, introducendo abilmente tematiche e suggestioni particolarmente importanti.

A servire le espressioni dei personaggi, troviamo un Leinil Francis Yu particolarmente ispirato, che con il suo tratto pieno di tratteggi e linee dà la giusta misura alla sensazione di costante conflittualità. Oltretutto, nonostante diverse somiglianze, è abissale il divario con tutte le altre volte che Steve è stato costretto a divergere dal suo Governo (che nel ciclo di Coates lo dichiara addirittura colpevole di omicidio) o ad abbandonare il suo costume (Steve decide volontariamente di essere solo il Capitano): in queste storie Capitan America non è -solo- braccato dalle autorità, ma ha perso la fiducia delle persone che non credono più nella Sentinella della Libertà, permettendo all’organizzazione dell’Elite al Potere (ai cui vertici si nasconde probabilmente la figlia di Alcsander Luskin e il solito Teschio Rosso).

Inverno in America e Capitano di Niente, i primi due archi narrativi della run di Coates ancora in corso, mettono sotto accusa le istituzioni americane, il potere dei ricchi, la corruttibilità dell’opinione pubblica, l’influenza dei mass-media: è per questo che Cap torna ad incarnare in qualche modo lo spirito americano diventando il capro espiatorio di tutti i problemi, ma diventandolo volontariamente, mentre in un corto circuito si spoglia del suo scudo e del suo simbolo.

Il Captain America di Coates è un fumetto denso, politico, estremo e intelligente: peccando forse dal punto di vista del ritmo, ma riuscendo ad essere un punto di domanda necessario per iniziare a interrogarsi sul senso della nostra reale libertà.


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