The Boy and the Beast – Recensione

Ambientata a metà tra il mondo delle bestie e quello degli uomini c’è la storia di un orso piuttosto rissoso che decide di prendere con se un allievo umano, un bambino orfano che sta scappando dalla sua vita. L’orso gli insegnerà (a modo suo) a combattere il male, soprattutto a conoscere quello che alberga dentro il suo cuore.

Qualcuno di voi già conoscerà il maestro Mamoru Hosoda per la sua opera più famosa e magari si sarà anche commosso guardando Wolf Children (qui potete leggere la nostra recensione), e forse qualcuno di voi – come me – avrà versato fiumi di lacrime con tanto di singhiozzo per la storia di quei bambini.

The Boy and the Beast può essere considerato il suo successore spirituale, riprende il tema della bestialità e dell’umanità che si contrappongono, passando dalla convivenza alla completa incompatibilità. In entrambi i film il processo di crescita e maturazione dei protagonisti è alla base di tutta la storia, lanciando chiaramente un messaggio su quanto sia importante la formazione che riceviamo da bambini per rivoluzionare ogni persona.

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Uno dei  protagonisti è Ren, bambino orfano di madre e abbandonato dal padre da molto tempo, che decide di scappare dalla tutela dei parenti per vivere nelle strade di Tokyo; l’altro è Komatetsu, una bestia dalla fattezze e dal carattere di un vero orso. Quando quest’ultimo s’imbatte in Ren, più solo e scontroso che mai, vede in lui un tipo promettente e gli propone di seguirlo nel suo mondo per permettergli di renderlo suo allievo e insegnargli le arti marziali.

Dapprima per orgoglio il ragazzino non accetta, poi consapevole di non avere nulla, decide di seguire la bestia di nascosto e si ritrova in un mondo in cui è persino vietata l’introduzione degli umani.

Per le bestie infatti noi umani siamo portatori di oscurità, siamo vittime di paure e vuoti che ci consumano da dentro, fino a toglierci la capacità di razionalizzare gli eventi.

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Scoppia ben presto una scandalo quando Ren viene sorpreso ad assistere allo scontro tra Komatetsu e il suo più acerrimo rivale – un cinghiale –  per la successione del titolo di gran maestro. Durante lo scontro, oltre ad essere scoperto, il ragazzino capisce che quella bestia orso è proprio come lui, sola nel suo mondo, senza un briciolo di credibilità e con un pessimo carattere.

Il gran maestro in carica –un coniglio bianco- tuttavia permette a Ren di restare. Da questo momento il ragazzo verrà ribattezzato Kyuta, inizierà un percorso di duro addestramento ma soprattutto di difficile convivenza con Komatetsu, vissuto finora solo per sé stesso, tra disordine e rozzezza, mangiando esclusivamente uova crude mescolate a riso bianco.

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Ma per quanto si può continuare a scappare dalla nostra vita? Per quanto possiamo allontanarci dalle nostre origini e da chi siamo realmente? Dopo diversi anni Ren, ormai adolescente, decide di rifare un salto nel mondo umano e ciò che trova lo farà riflettere: una studentessa, la scuola, la voglia di apprendere e soprattutto il vuoto lasciato dentro di lui da chi lo ha abbandonato.

In fatto di sceneggiatura il regista risulta impeccabile: il gioco delle gag alternate agli scontri fisici dà vita a sequenze che trasmettono la forza brutale delle bestie, così come sono estremamente accurate le parti ambientate per le strade di Tokyo. Al contrario avrei apprezzato più profondità nel trattare i rapporti tra i protagonisti, conoscendo il passato che hanno alle spalle, la loro realizzazione sembra invece quasi scontata. Nonostante sia proprio a partire dalla mancanza dei genitori che Ren deve farsi carico del suo destino, il rapporto padre-figlio rimane praticamente celato.

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Tuttavia, tutti quei dettagli che rendono la storia scontata non fanno che creare in noi una sensibilità che ci contamina ed emerge inaspettatamente alla fine. Tutti i personaggi sono esagerati e stereotipati, per lo più sono fantasiosi, ma tutti credibili e vicinissimi al mondo reale. Dopo una storia che sembra sempre in crescita, il finale pare colmare tutte le lacune, facendo emergere la morale forte e chiara: quel buco nero che a volte ci divora e ci fa traboccare di solitudine e rabbia può essere arginato solo con l’affetto delle persone che ci sono accanto.

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Hosoda conferma di essere un narratore davvero unico. Se la prima impressione è quella di essere di fronte ad una storia banale, paragonabile ad Alice che si ritrova in un mondo parallelo pieno di stranezze, la seconda ci farà ammettere di esserne stati inevitabilmente rapiti. Il regista sa decisamente su quali tasti toccare.

 

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Saki

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Cuore giapponese in un corpo italiano, leggo manga dalla più tenera età e sogno ancora di cavalcare Falcor! Curiosa fino allo sfinimento, sono pronta a parlarvi delle mie scoperte!

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